ROMOLO MURRI
1904
Al lettore,
Queste Battaglie hanno avuto un successo librario che non è molto frequente in Italia: esse sono, con questa edizione definitiva, alla terza e alla quarta ristampa: e forse una nuova ristampa sarà ancora necessaria fra breve.
Ma l'origine di questi volumi, che non sono opera di studio meditato e maturato con calma, ma articoli scritti da principio nella fretta di un lavoro febbrile, e quasi prima scritti che pensati, li esponeva ed avrebbe continuato ad esporli ad ogni ristampa a ritocchi, aggiunte, soppressioni numerose e di vario genere: così viva e spontanea era in essi l'impressione del momento, e delle condizioni del momento nel quale furono scritti, che di anno in anno, col mutare e col progredire del pensiero e della vita, quella stessa freschezza e spontaneità, che fu forse un pregio da principio, diviene per essi un difetto: ricordo, sempre più stanco e lontano, di stati d'animo superati, di relazioni e di modi di vedere venutisi poi sempre modificando.
E per questo, vale a dire per un motivo opposto a quello che forse corre primo alla mente del lettore, io ho chiamato la presente edizione delle Battaglie definitiva: perchè, cioè, essa non verrà più modificata in eventuali ristampe seguenti; fra il rimanere, come è, documento d’un periodo che fu e il divenire, come potrebbe solo assai difficilmente, lavoro che rispecchi via via le mutevoli condizioni del pensiero nostro e il diverso modo di porre e di risolvere i problemi dei quali questi volumi si occupano, essa si decida oramai per la prima cosa: per la seconda meglio è tentare, se mai, libri nuovi.
In questi anni si è avuto in Italia fra i cattolici un rapido e intenso cammino di idee: nel terreno degli studi religiosi, in quello dell1 attività politica e sociale dei cattolici — da Leone XIII a Pio X— s’ è fatta oramai in soli sette o otto anni maggiore cammino di quél che si fosse fatto prima in quaranta: è stata, diremmo, se la parola non rischiasse di scandalizzar troppo certa gente, una rivoluzione.
Ma a molti sarà caro rivivere le lotte e le speranze e i propositi primi: per moltissimi altri, specialmente in certe regioni, si è ora dove quelli de’ nostri che si sono mossi prima erano molti anni addietro: infine, sette anni non sono poi la vita di una generazione e, se molto è cambiato, molto rimane ancora quale era quando queste Battaglie furono combattute; ed ecco i motivi per i quali mi è parso utile ripubblicarle e raccomandarle ancora alla benevolenza degli amici.
Quest’ultimo volume, poi, è nuovo. Esso raccoglie per le prima volta insieme discorsi già noti ai lettori della Cultura di due o tre anni addietro e qualche scritto pubblicato in periodici non cattolici; ci sono delle lacune; una fra le altre, della quale molti si accorgeranno subito e che non sarà facile, per qualche tempo ancora, colmare; c’è una aggiunta nuovissima e non priva di interesse oggettivo: una breve sintesi storica del movimento nostro.
La serie rimane aperta; altre battaglie, altri scritti, altri discorsi, altri volumi; aperta, perchè lo scopo che ci mosse non è raggiunto, perchè la diana che chiamò noi suona sempre per molti altri, pigri e dormienti, perchè il nemico dentro e fuori urge ed incalza; aperta sino al giorno, ql meno, che un risultato sicuro e visibile non ci permetta di arrestarci un poco sul cammino, pensando, con una certa malinconia ma con animo fiero e sereno, che il nostro luogo di sosta è una tappa nel cammino di un popolo e che se anche noi, cavalli stanchi e incapaci di continuare, rimanessimo sul luogo, altri sono pronti e partono; e l’eco delle voci di coloro che continuano la via si perderà lentamente nelle nostre anime, come nella calma serenità dello spazio.
Narni, aprile 1904.
Signori,
Scendendo, per venire, la soglia di casa, ho incontrato l’artista che mi recava il disegno della testata del nostro nuovo settimanale.
C’è, in esso, tratteggiata una vecchia e cara cosa, l’Italia, avvolta da un magnifico giro di garofani bianchi: e c’è da una parte, in alto, una cosa più vecchia ancora, il sole che sorge e spande intorno i suoi raggi.
Troppo, o signori, noi poveri umani abbiam profittato di questo antico sole per indicare ogni cosa che nascesse e salisse nel nostro cuore e nell’anima nostra; ma il sole è sempre giovane e sempre grande, e noi non sappiamo rinunciare all’eterno simbolo.
Ed io venendo ripensava appunto al giovane e fresco movimento nostro che nasce e sale nell’animo dei cattolici; e a quest’atto solenne che in un principio di secolo è veramente l’origine di tutto un mirabile giorno nuovo d’attività religiosa e civile, all’enciclica Graves de communi che siam qui a festeggiare: a festeggiare, o signori, perché — lasciate che io anticipi il mio pensiero — essa è cosa nostra, essa accetta e benedice e consacra il movimento al quale noi demmo tanta parte di noi, l’umanità cristiana tanta parte delle sue speranze e dei suoi propositi nuovi.
Ed io ripensava ancora ad un’altra enciclica pontificia con la quale questa d’oggi è intimamente connessa, alla Rerum novaram. Questa apparve fuori dalle incertezze e dai problemi gravi d’un tramonto doloroso ed illuminò di vividi sprazzi di luce la coscienza tormentosa dei mali del secolo che cadeva, ripresentando agli animi le eterne dottrine della giustizia e della pace sociale: quella di oggi ha la sua ragione in tutto un movimento nuovo e vivace di idee e di fatti che ebbe origine in gran parte da quella prima; e sale con esso e gli spiana la via dalle difficoltà numerose e sprona gli animi ad accettarlo e lo spinge validamente verso l'avvenire.
E l’una enciclica e l’altra son come un fatto solo, che occupa il confine dei due secoli, e da un lungo periodo di decadenze e di contrasti civili e sociali trae le origini d’un mondo e d’un diritto nuovo, anticipato nel programma dell’azione cristiana sociale o della democrazia cristiana.
Entriamo subito in argomento ed esaminiamo le origini della Graves de communi.
L'azione cristiano-sociale, nelle sue forme concrete e visibili, risale alla metà del secolo scorso. Da principio, quando, nei torbidi i quali caratterizzarono la prima metà di esso, le anime si agitavano ancora confusamente verso le nuove forme di convivenza civile, la politica occupò gli animi, le miserie del proletariato furono quasi coperte dai gridi d’un male più vasto e di aspirazioni più vive, il liberalismo percorreva il suo cammino trionfale e la Chiesa si raccolse sulle difese.
Ma sulla metà del secolo, quando di sotto le forme evanienti dell’utopia socialista cominciò a disegnarsi una politica del proletariato, quando la servitù economica di questo, divenuta più che mai gravosa, faceva contrasto con l’eguaglianza civile e col nuovo potere politico che la rivoluzione gli aveva dato, quando, infine, cominciò a chiarirsi il problema della situazione nuova reciproca dei lavoratori e dei capitalisti proprietarii ed intraprenditori, i cattolici, i migliori di essi, entrarono nell’arringo e parlarono d’un programma di giustizia sociale a favore degli umili. Sorse così, quasi contemporaneamente nei diversi luoghi, un’azione vigorosa, il cui puntò di partenza è la visione di una flagrante ingiustizia sosiale e di un profondo perturbamento degli ordini sociali a danno dei lavoratori; la cui norma è il rigido concetto del dovere sociale in tutta la sua ampiezza, e la cui meta una restituzione dell’ordine civile e sociale in cui tutti gl’ interessi sieno legittimamente tutelati, e ristabilita, nell’equilibrio degli interessi e delle funzioni, l’armonia degli uffici sociali, una più ampia effusione dello spirito di giustizia e di solidarietà.
E questa attività nuova dei cattolici, pure in mezzo a difficoltà enormi, cresce e si diffonde e richiama l’attenzione di molti: sicché gli animi cominciano a guardare verso Roma e la coscienza cattolica che si va chiarendo chiede la parola autorevole che deve esserne la formale e decisiva espressione.
E il Papa parla.
L’enciclica Rerum novarum è un documento di pura indole dottrinale: esso riassume ed espone, in ordine alle necessità dei tempi, la dottrina eterna della Chiesa sulle basi della società civile, sulla divisione degli ufficii sociali, sulla nobiltà e sui diritti del lavoro. E da quel giorno, quanti hanno lavorato nel campo cristiano sociale hanno fatto appello a quel documento nobilissimo che aveva, nelle linee maestre, tutto il programma, e nel quale palpita la coscienza feconda ed animatrice d’una nuova società restaurata in Cristo; ed una magnifica fioritura di idee e di opere sociali si espande nei paesi cristiani.
Ma dal giorno in cui l’enciclica Rerum novarum fu pubblicata e divenne norma viva e feconda del lavoro dei cattolici, immedesimata in questo e ascendente con esso alla conquista di tutti gli animi, da quel giorno comincia la storia di quest’altro documento pontificio, la cui comparsa solennizziamo.
Poiché, o signori, l’unione fra le menti degli uomini e la verità non avviene quasi automaticamente, con un congiungimento meccanico: regolarmente, e fuori del caso d’una conversione miracolosa, l’uomo, anche nell’accettare una dottrina che gli viene proposta da un’autorità alla quale crede e vuol credere, riceve quella verità secondo le attitudini del suo intelletto, l’adatta a sé medesimo, la ricostruisce in sé, la rivive mentalmente, e, in tale processo di assimilazione, ne prende da principio quel che può rispondere al suo stato d’animo precedente e spesso non accetta e respinge il resto: non sempre senza colpa, certamente, perché, se è quasi innata nell’uomo una stabile congiura contro la verità che urta i proprii interessi ed i proprii gusti, spesso questa congiura sorda e lenta è voluta, almeno nelle cause: ma il più spesso, e nei più, avviene quasi inconsapevolmente, per la forza delle cose che circondano e avvincono e dominano gli uomini, quando questi non han virtù di dominare le cose con la forza della loro volontà e del loro ferreo carattere.
Così, o signori, quell’enciclica Rerum novarum che avrebbe dovuto e potuto tagliar fuori tutte le questioni, ne suscitò delle più vive: coloro che avevano l’animo aperto alle nuove dottrine l’accolsero intiera volenterosi ed in essi quella parola fruttificò opere nuove e vivaci: gli altri la ricevettero solo in parte e, dopo una specie di riconoscimento formale dato alle dottrine scritte, rifiutarono il loro consenso e il loro concorso quando esse si presentavano nella veste concreta di fatti, fecondati e avvivati da quelle dottrine, e chiedevano opere positive e collaborazione fruttuosa. E molti, i più, quelli che non hanno tanta in sè vita di pensiero da farsi un’idea propria delle cose, videro in quei contrasti quasi una prova d’immaturità e d'incertezza delle dottrine medesime; e si astennero timidi e spaventati, inducendo con la loro autorità, quel che è peggio, anche altri ad astenersi.
Del resto, tutta la storia dell’azione cristiana sociale è piena di così fatti contrasti.
Come, quando in un corpo esausto e malato la vita si ritira lentamente verso gli organi più deboli e più delicati, mentre negli altri il difetto di ricambio e di movimento produce il torpore e l’infiacchimento dei tessuti e il cessare delle funzioni organiche speciali e la corruzione, se poi, per una felice combinazione, la vita ed il sangue giovane e fresco comincia ad affluire di nuovo nel corpo, si determina un contrasto lento fra i nuovi flutti della vita e i vecchi tessuti: e solo adagio adagio e rinnovandosi con grave difficoltà le parti fiacche rinvigoriscono ed i vecchi e guasti elementi sono allontanati, con un ricambio materiale più vigoroso, sinché tutto il corpo non rifiorisce: così nella società cristiana la vita che, in secoli di decadenza civile, si era raccolta negli organi più interni e più delicati, non comincia, nella metà del secolo scorso, a rifluire nel corpo sociale se non traverso a grandi difficoltà e a grandi contrasti: perché trova elementi di morte con i quali deve lottare, e vene e tessuti fiacchi che si rifiutano di trasmettere e di assimilare l'onda rinnovatrice.
Di tali contrasti noi non potremo adunque meravigliarci: e se, dal 1897 ad oggi, essi si son venuti allargando e moltiplicando, ciò mostra solo come la dottrina pontificia facesse il suo corso e, traverso alle immancabili battaglie della vita, riformasse il mondo e la società.
E così il medesimo processo, del quale abbiamo parlato poco sopra, si ripeteva ora.
Via via che le difficoltà crescevano e aumentava l’incertezza negli animi e pareva a molti che quelle battaglie ardenti di idee e di fatti, dalle quali sprizzava la vita, conducessero invece alla morte, cominciava a nascere il desiderio di una parola autorevole che togliesse le difficoltà, chiarisse gli equivoci e conciliasse gli animi desiderosi di bene: e il desiderio divenne in breve così intenso che alla Santa Sede parve opportuna una nuova parola: l’aspettare fu lungo, fu impaziente, o signori, ma la nuova parola venne.
E non era questa volta un documento d’indole dottrinale, era una direzione pratica.
Se voi all’enciclica Graves de communi chiedete la esposizione netta e sistematica di un programma e di una dottrina, perdete il tempo in cercarvela: la dottrina e il programma apparisce da ogni parola, ad ogni frase, balza fuori da ogni periodo, si disegna luminoso in fondo alle pagine, ma l’esposizione positiva, sistematica non vi è: l’enciclica parla solo di- concezioni erronee da respingere, di scogli da evitare, di problemi pratici da chiarire: illumina, ma dirigendo.
È così che essa suppone per necessità la dottrina già nota ed esposta, l’enciclica Rerum novarum.
Del resto, la cosa non fa meraviglia: non è sola la dottrina pura e sistematica che dirige gli uomini, ma si anche la direzione autorevole: né a ciascun documento pontificio noi possiamo chiedere volta per volta tutta la verità.
E di fatto, neanche nel Vangelo, o signori, c’è tuttala verità cristiana: né il Vangelo, meditato come lo poteva meditare un monaco isolatosi in fondo all'Egitto, illumina ed istruisce su tutto il dovere cristiano: oltre al Vangelo, c’è la tradizione, c’è la Chiesa e il pensiero della Chiesa: una cosa viva, perenne, che sta in mezzo a noi e vive nella nostra vita, elevando e nobilitando: e che ci indica di giorno in giorno le soluzioni dei problemi nuovi che ci affaticano, la via delle aspirazioni nuove che si sprigionano dal concreto miscuglio della storia e salgono verso l’avvenire.
A me pare che sia assolutamente necessario ritenere bene questo, per intendere il valore vero dell’enciclica: ed, invero, essa medesima nelle sue prime pagine ci autorizza a questo doppio richiamo: a dottrine ed a lettere pontificie precedenti, dall’una parte, e ad una serie di atti, ad un movimento vivo e concreto dall’altra.
Le direzioni che l’enciclica racchiude sono giustificate e richieste da un movimento concreto, da un fatto che essa ha dinanzi: questo fatto è l’azione cristiano-sociale, la democrazia cristiana, la grande corrente di idee e di opere intorno alla quale ferveva il dissidio: e su questo fatto la parola pontificia scende, per accettarlo, per approvarlo, per sancirlo ufficialmente, per riconoscerlo come suo, per fame una cosa della Chiesa medesima e di tutta la Chiesa.
Ed è questo, o signori, che nel leggere il documento insigne ci ha riempito l’animo di gioia e che anche ora ci empie di gratitudine.
Questo grande e così combattuto avvenimento di una azione nuova e profondamente rinnovatrice, che pullula dal seno medesimo della vita della Chiesa e della vita popolare intimamente e indissolubilmente congiunte: questo salire affettuoso di voci e di aspirazioni degli umili verso la Chiesa e questo scendere sollecito dell’apostolato cristiano rinnovatore e restauratore nei profondi gorghi delle coscienze nuove del proletariato che si leva di fra il pianto e i contrasti: questa bandiera che fu la nostra bandiera e che noi difendemmo in pochi e spesso contro molti, è oggi l’avvenimento, il lavoro, la bandiera di tutti i cattolici: noi non siamo più un manipolo, non siamo più un gruppo fra altri gruppi ostili, siamo oggi tutta l’azione, tutti i cattolici.
E solo interpretando il documento pontificio a questo modo voi lo rendete alla sua importanza vera e grandiosa: solo così esso si anima agli occhi vostri della divina vita della Chiesa, e, quando approva la democrazia cristiana, penetra e consacra un ordine di fatti che è principio di tutto un grandioso rinnovamento.
E per questo, permettete il vanto, noi specialmente, democratici cristiani di prima del documento, abbiamo ragione di esultare oggi: questo lavoro, sul quale scende la parola augusta approvatrice del Papa, è per tanta parte opera nostra: noi in Italia lavorammo in esso ed a noi è dovuto in molta parte se tante giovani anime vi si ascrissero volenterose, se tanto desiderio di attività nuova ne rampollò, se l’attenzione di tutti, cattolici ed avversarii, in Italia e fuori, fu richiamata su quel movimento: Cultura sociale e il nostro Circolo di Roma furono il centro più vivo di raggruppamento e di propaganda: e se, uomini di azione, noi non amiamo guardare al passato e siamo già pieni, quando l’eco della enciclica è nel massimo suo vigore, dei propositi del lavoro nuovo, lasciate pure che guardiamo un momento solo con compiacenza all’approvazione che cade dal Vaticano sul lavoro compiuto.
Io ho detto che nell’enciclica non v’è una esposizione sistematica della dottrina e del programma della democrazia cristiana. Ma non vorrei che da questa affermazione così evidente si traesse una conseguenza falsa.
Leggete e meditate queste nobili pagine, cercate di gustarne l’intimo sapore: e voi sarete, come io sono, intieramente convinti che agli occhi di chi pensò e dettò questi moniti paterni brillava in tutto il suo fulgore il programma della società cristiana rinnovata che emerge dall’enciclica Rerum novarum.
Già l'azione cristiana sociale, la vita popolare, la democrazia dicono, per l’intima forza delle parole, qualche cosa di profondamente vivo ed agitatore nella società moderna, e quasi un principio di vita che tenda a ricomporne intieramente l’organismo su nuove basi: ma si parla inoltre spesso di giustizia, di rivendicazioni economiche e politiche di ogni genere, che pure sole non bastano, di istituti volti a migliorare stabilmente la sorte dei lavoratori, di una più equa armonia delle classi: vi si parla specialmente e ripetutamente della dignità del lavoro umano, dello stabile benché modesto benessere al quale il lavoratore, anima cristiana volta all’acquisto dei beni eterni, ha diritto, per vivere con quiete secondo virtù, dell’opera che esso deve compiere per la propria elevazione, cooperanti — cooperanti, notate — le classi superiori.
Ed io sono già entrato così nella seconda parte di questo mio brevissimo studio: la quale riguarda, non più le origini e le ragioni del documento, ma la sostanza medesima di esso ed i suoi rapporti con la società di oggi. Ma mi torna in mente — e non posso tacerne, benché avessi fatto il proposito, così logico, di non accennare che ai motivi di gioia, perché mi par che esso mostri di quanto verrebbe diminuita l’enciclica da chi le volesse togliere tanta virtù di programma rinnovatore — il commento, breve breve, che dell’enciclica faceva uno di quei molti nostri che essa orienta, con un brusco movimento, verso la temuta democrazia: dalla Graves de communi apparisce, diceva, come la democrazia cristiana è un istituto di beneficenza: popularis beneficentiae ratio.
Io non credo tuttavia che alcuno possa dir ciò, altro che nella sorpresa di una delusione inaspettata: perchè nessan cattolico vorrà meditatamente trarre con uno sforzo infelice le parole del Papa ad accomodarsi ai suoi gusti ed ai suoi desideri privati; non è lecito, benché avvenga talora, impicciolire sino a noi una parola così alta, in luogo di cercar di elevare noi stessi ad essa: né, se con molta tenacia ognuno cercasse di trovar sè stesso nella parola del Papa, da essa, per quanto voglia essere semplice ed alta, potrebbe mai venire la concordia.
Eppure sì, il Papa parla largamente di carità e di beneficenza. Ma non è ciò conforme singolarmente alle esigenze del programma cristiano-sociale? Carità è una cosa e giustizia è un’altra: beneficenza è una cosa ed azione sociale cristiana è un’altra, ed il Papa lo dice apertamente; ma l’una fiorisce nel campo dell’altra, perché ambedue hanno un’origine sola, il vedere in ogni uomo un fratello, un uguale dinanzi a Dio: e se le pure rivendicazioni della giustizia, queste fredde parole di mio e di tuo, sono piene di stridori e di contrasti senza il divino lenimento della carità, la carità, intesa non come comunione di anime in Cristo, ma come volontà largitrice del proprio agli indigenti, diverrebbe una vana irrisione se non fosse accompagnata alla giustizia: poiché inutilmente voi rendereste cinque per beneficenza a colui al quale avete tolto venti con ingiustizia, speculando sul frutto del suo lavoro.
L’enciclica stabilisce poi nettamente che la democrazia cristiana, dalla Chiesa fatta propria e ufficialmente accettata, non è politica: e molti avranno forse voglia di opporre questa pagina a noi che fummo spesso accusati di voler fare a tutti i costi della politica. Ebbene, o signori, in questo opporre a noi quel monito salutare ci sarebbe un equivoco grosso. Non noi certamente, e da quel che ho detto potete bene comprenderlo, impiccoliamo la democrazia cristiana sino al punto di vedervi dentro la richiesta e l’approvazione di un qualsiasi moto partigiano e locale o anche solo la tendenza ad una determinata forma di costituzione politica.
Ma questo immenso orientamento della Chiesa verso un nuovo avvenire suo e del popolo, questo movimento che abbraccia tutta l’umanità cristiana, che pullula dalla più intima sorgente della coscienza e dell’anima cattolica, che è in Francia, in Germania, in Italia, come in America ed in Inghilterra, può esser confuso con la politica piccina e circostanziata di questo o quel paese, in questo o quel momento della sua storia?
Io non mi meraviglio che l’enciclica chiarisca così luminosamente l’equivoco; mi meraviglio invece che esso abbia potuto nascere e diffondersi così largamente in Italia. La giustizia legale o sociale: l’armonia delle classi: la lotta fra capitalismo e proletariato: l’ascensione degli umili appoggiata sullo sviluppo della legislazione civile, della cooperazione, della coscienza sociale, eccedono i limiti delle nazioni singole o gli affanni passeggieri di una generazione: solo può legittimamente sostenersi che nei tentativi di partiti, volti a penetrare dello spirito di un programma nuovo le istituzioni vigenti, nella più perfetta legalità di sane agitazioni politiche, si riflette quel programma: in questo caso la politica è il caso concreto, è il lineamento d’una azione limitata, che, rispettando l’autorità sociale costituita, cerca di penetrare dello spirito proprio la vita e gli ordinamenti pubblici: ed essa va allora esaminata e giudicata a parte; ma la democrazia cristiana, come il Vangelo, come la Chiesa, è cosa di tutti gli uomini e di tutti i luoghi.
Del resto — io non ho l’abitudine, o signori, di nascondere o di velare il mio pensiero — noi in Italia vogliamo fare anche e faremo della politica, dentro i limiti stabiliti da altri documenti pontifici, ed appunto per difendere e rivendicare i diritti della Chiesa e del popolo: ma questa non è democrazia cristiana, è altro ordine di fatti e di questioni del quale l’enciclica non si occupa: ed a questa politica sana e cattolica nessun servizio migliore di questa autorevole distinzione pontificia poteva essere reso. Solo per equivoci grossolani noi potemmo essere sospettati su questo punto quando si volle vedere nella nostra democrazia la tendenza a nuovi ordinamenti politici: e rassegnare ad ogni cosa il suo posto e i suoi limiti giova immensamente a liberarci da ostacoli e da difficoltà contro le quali non avremmo, in altro modo, potuto lottare.
Poiché questo è anzi il maggiore rimprovero che noi facciamo ai socialisti, rimprovero che l’enciclica stessa ripete: il subordinare essi gli interessi veri e immediati del proletariato alla conquista del potere politico e dello Stato da parte di questo: vale a dire ad una vana e nociva democrazia politica, che noi respingiamo[2].
Così l’enciclica Graves de communi rivendica altri punti fondamentali dell’azione cristiana sociale con eguale opportunità.
Essa stabilisce la differenza stabile degli ufficii e delle classi, rivendica di nuovo la proprietà privata, pure accennando ai doveri che limitano l’esercizio e il consumo dei beni che il proletariato ne percepisce; respinge da qualunque azione sociale di cattolici il proposito di ribellioni all’autorità e di sovvertimenti politici.
Ma non sono tali idee patrimonio prezioso della democrazia cristiana dal giorno che essa nacque? E queste, che a menti piccole potranno parere limitazioni e riserve, non sono, in fondo, dilucidazioni dell’intima sostanza di questa democrazia?
Così, chiarendo sempre i suoi intenti e i suoi scopi, passando dalle prime affermazioni vigorose e tumultuarie, che sorgono armate del contrasto de’ fatti, ad una normale, serena esplicazione del suo spirito, la democrazia cristiana ascende nella vita moderna e si manifesta ogni giorno meglio come forza di coesione che associa le classi, elevandole ad un concetto umano e cristiano di solidarietà e di ascensione comune nelle vie del progresso: così la parola del Papa facilita ad essa il cammino negli animi, rivelandone l’intima e sostanziale bontà.
Un giorno, o signori, fra un mese, fra un anno, quando l’eco prima di questa parola sarà svanita, quando i commenti saranno cessati, e le idee ed i fatti, inseguito al nuovo vigorosissimo impulso, ripiglieranno il loro corso normale, allora, perduti di vista i contorni, le ombre e le incertezze che intorno a ogni cosa la quale è mista di umano o vive e apparisce nei fatti umani non mancano mai, potremo giudicare l’enciclica al suo giusto valore, quale i fatti medesimi e la storia della Chiesa l’avranno raccolta, interpretata, materiata, rifatta: poiché essa è di quelle pagine delle quali si parla per lungo tempo e la cui opera vive anche quando la memoria ne sembra perduta.
Ed ora, o signori, noi siam già al nostro ultimo compito: vedemmo le ragioni ed i precedenti dell’enciclica, ne esaminammo il rapporto diretto con l’azione: osserviamone ora il valore d’inizio nuovo: ma brevemente, poiché a pena è dato, sulla traccia di questa parola autorevole, indagare e prevedere oggi quello che sarà.
L’enciclica Graves de communi rende innanzi tutto alla democrazia cristiana italiana due grandi, veri servizi: attutisce o spiana intorno ad essa molte diffidenze e molte difficoltà, e le permette di ripigliare, con un coraggio e con un vigore tutto nuovo, il suo cammino, estendendo a tutto il campo dell’attività cattolica il proprio raggio di azione.
Quando intorno al lavoro nostro le difficoltà si moltiplicavano, e noi fummo creduti un pugno di faziosi, e parve che a lavorare e ad esigere indirizzi più savii e impulsi più vigorosi ci spingesse solo desiderio di distinguerci e di giungere presto, noi aspettammo con pazienza: il tempo ci avrebbe reso giustizia.
Al tempo si è aggiunta oggi — ausiliare prezioso — la parola del Papa: né ci par possibile che, accettato il nome e la sostanza della democrazia cristiana, coloro i quali di essa han fatto il programma di tutta la loro azione non debbano avere più facile ed aperta la via.
Certo non tutti i contrasti spariranno: alcuni ce ne procureranno ancora le resistenze della vita reale ad un cosi nobile programma cristiano, in altri ci trarranno le stesse conversioni in massa alla democrazia cristiana: anche fra cattolici la vita è, per necessità di cose, feconda di lotte e di attriti, ed anche nell’azione nostra si riflettono interessi, abitudini, tendenze diverse: ma ora, come un giorno le linee dottrinali, anche gli avviamenti pratici sono fissati, e molto cammino sulla indicazione di essi potremo percorrere.
E se noi, o signori, non crediamo di poter chiedere all’enciclica di oggi tutte le direzioni e lo scioglimento di tutte le questioni pratiche, come all’altra Rerum novarum non chiedemmo tutto il programma, ma solo le grandi linee maestre, queste grandi linee maestre ci bastano: tocca ora a coloro nell’opera dei quali la democrazia è apostolato vivo e fecondo raccogliere giorno per giorno gli ammaestramenti della vita ed unirli a quelli della fede e dell’autorità religiosa, tradurre in una storia nuova di civiltà e di istituti sociali cristiani questo felice accordo di vita popolare e di vita cristiana che il documento pontificio ci inculca.
E non temete, signori, lavoreremo. Progredendo la sua via, questo grande programma sociale cristiano maturerà nei fatti e nella vita nostra: e nel lavoro concreto, nello sviluppo di un’agitazione opportuna, nel fiorire delle associazioni nostre noi avremo una democrazia cristiana italiana, fioritura cattolica insieme e nazionale, plasma fecondo dal quale escirà rinnovato l’organismo adatto alle conquiste future della vita pubblica nostra.
Per questo lavoro nuovo noi chiediamo l’accordo dei cattolici e lo chiediamo, come la Santa Sede ci inculca, nella varia e multiforme fioritura di associazioni che, conservando intatta la propria autonomia, si imperniano nell’Opera dei congressi: nella quale Opera noi riconoscemmo sempre una preziosa tradizione di forze organizzate ed un utile strumento di unità e di direzione comune, dolenti quando fu necessario, di fronte alle esigenze evidenti ed ogni giorno più gravi della vita e dell’azione di oggi, di fronte al socialismo che organizzava rapidamente il proletariato e ci toglieva così la sola forza di riserva per un programma nuovo, insistere perchè nelle file dei cattolici organizzati dall’Opera passasse una corrente di vita più fresca: e apparimmo, e fummo forse in vero impazienti, o signori; ma era impazienza alla quale oggi la Santa Sede medesima rende la più splendida testimonianza di lode.
Noi chiedemmo, per amore dell’Opera e per i progressi dell’azione di parte nostra, che questa unione fosse non statica, ma dinamica; che non rattenesse i volenterosi ma li dirigesse e aiutasse; che avvenisse non nell’inerzia che mortifica, ma in un programma di lavoro sano e adatto ai tempi.
Oggi questo programma ci è indicato dalla Santa Sede medesima: in base ad esso noi non accettiamo solo ma vogliamo e chiediamo l’unione, risoluti come siamo a non essere un manipolo ed un gruppo, ma ad essere tutta l’azione e tutto il pensiero di parte nostra, come la democrazia cristiana è oggi non cosa di questi o quelli cattolici, ma di tutti i cattolici e di tutta la Chiesa.
Ed ora avanti, o amici: la via percorsa in tre anni è (come ognuno riconosce oggi e come osservavano solo ieri, occupandosi con grande benevolenza di noi, i due maggiori quotidiani cattolici della Germania)[3] quale nessuno di noi avrebbe potuto sperare: io non dubito che gli anni venturi vedranno incrementi egualmente rapidi e prodigiosi della causa nostra e che ciò che oggi arride alla nostra speranza di agitatori come un sogno lontano divenga presto realtà.
Avanti! Si lasci passare questo programma, questa azione democratica cristiana, nel nome della Chiesa e del Papa: essa porta le fortune del paese nostro e le fortune della Chiesa in Italia; ad essa appartiene il domani, il domani d’Italia, della Chiesa, del popolo!
[1] Conferenza detta al circolo di studii sociali in Roma il giorno seguente la pubblicazione dell’enciclica Graves de communi.
[2] Queste idee io esponeva anche, assai prima della pubblicazione dell’enciclica, nel mio primo volume di Battaglie d’oggi, nel quale parlava del programma politico che i cattolici italiani si vanno lentamente facendo.
[3] Germania, 15 gennaio; K. Volkszeitung, 18 gennaio 1901.
Sezione non disponibile per motivi di copyright. Il testo diverrà di pubblico dominio solo a partire dall'aprile 2014.
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