ROMOLO MURRI
ORIGINI, NATURA METODO E SCOPI PRATICI
1912
Il significato della parola
L'anticlericalismo è, come dice la parola, lotta contro il clericalismo; lotta che ha molte forme, secondo i mezzi dei quali fa uso od i particolari lati del clericalismo che attacca. C'è l'anticlericalismo che combatte il clero con la critica dei suoi costumi o gli solleva contro difficoltà e oppone dimostrazioni a dimostrazioni pubbliche; c'è quello che crea opere positive di educazione laica e di propaganda antiecclesiastica o che provoca e prepara leggi volte a limitare o a rimuovere il privilegio ecclesiastico o che, più semplicemente, cerca la diffusione dei principii opposti a quelli dai quali muove il clericalismo.
Ad ogni modo è necessario parlar prima di quel che è espresso con termine positivo: clericalismo, per veder poi che cosa sia e che voglia e come possa ottenere il suo scopo un movimento che si offre come la negazione di esso.
Clericalismo, evidentemente, non è sinonimo di religione; poiché molte sono anime religiose, e vi hanno in Italia comunità religiose, p. es. le sinagoghe, che nessuno chiamerebbe clericali.
Né è sinonimo di cristianesimo; clericali, ad es., non chiamiamo certe chiese protestanti che non hanno alcuna influenza nella cosa politica e si occupano solo di bibbia e di riti e di problemi strettamente morali.
Né, propriamente parlando, va confuso clericalismo con cattolicismo; poiché vi sono cattolici — ieri i liberali, oggi i modernisti — che hanno combattuto e combattono le più caratteristiche pretese del clericalismo; e nessuno chiama clericali le donne ignare credenti o i fanciulli, solo perché seguono docilmente la religione cattolica; al più essi rientrano nella denominazione di clericali in quanto sono strumento del clero e dei politicanti per i loro fini non religiosi.
Un elemento politico e polemico è dunque incluso nella parola: clericale; essa dice genericamente una religione che cessa di essere religione, una tendenza all'intolleranza e al dominio nel nome dello stesso principio religioso, adulterato e sacrificato. Senza questi varii elementi non si ha clericalismo vero.
Che cosa è il clericalismo
Precisando, diremo che il clericalismo è il vizio organico e caratteristico di una società religiosa la quale presenti questi caratteri: un clero rigidamente organizzato in casta, un governo accentrato, autoritario e invadente; una religione che, nell'organizzazione e nell'opera sua esterna, non è totalmente assoggettata allo Stato né si tiene interamente fuori delle questioni e competizioni politiche; che è strumento di governo ed insieme ha nel governo uno strumento per la difesa e l'estensione del proprio dominio; che lotta o contro di esso, od, insieme con esso, contro le aspirazioni e le agitazioni dei sudditi tiranneggiati; che questa tendenza al privilegio e al dominio implica nella stessa concezione del suo mandato e del suo diritto così da presentarci normalmente, nella successione e nello spazio, lo stesso carattere di invadenza e di intolleranza. In tal caso, come si vede, nasce, fra il clero e i suoi seguaci dall'una parte, e i cittadini del medesimo Stato dall'altra, un conflitto il quale non riguarda interessi sostanzialmente religiosi (rapporti della coscienza con Dio, ricerca, attraverso le cose terrene e temporali, del momento od aspetto eterno ed assoluto della realtà, delle norme etiche supreme della condotta); ma riguarda invece interessi ed affari politici, e soprattutto la difesa della propria libertà di pensiero e di azione, della propria personalità e del suo autonomo sviluppo nei limiti delle concezioni filosofiche e sociali di una data età, contro il vescovo o il papa o l'imperatore o il signore feudale o il ministro o il prefetto.
Ora, indicando le condizioni del sorgere e del manifestarsi del clericalismo, noi abbiamo appunto indicato le caratteristiche del cattolicismo medioevale: una religione che in nome della libertà di coscienza, da principio vigorosamente affermata, passò a sostenere la sua libertà ed autonomia di fronte allo Stato per poi dividere con questo, nel nome del diritto divino, il governo dei sudditi; un clero rigidamente organizzato a casta, soprattutto mediante il celibato, strumento efficacissimo della costituzione di un interesse e di uno spirito di casta e di un saldo accentramento gerarchico; una lotta sempre risorgente per la ricchezza e per la libera gestione di essa, anche di fronte al fisco, per la determinazione autarchica delle forme e degli enti giuridici ritenuti necessarii allo sviluppo dell'attività di culto, per la diretta ingerenza negli affari politici, sotto il pretesto o dell'indipendenza religiosa o delle materie miste o del braccio secolare.
Non conviene tuttavia credere che il clericalismo, così inteso, fosse esclusivamente od anche principalissimamente dovuto ad un calcolo triste del sacerdozio. Certo esso ci si presenta, esaminato addentro, come una deviazione dallo spirito e dai precetti fondamentali del cristianesimo. Ma questa deviazione cominciò, si può dire, dal momento stesso in cui sulla religione che era rinascita e liberazione e intensa vita interiore e proselitistica dell'individuo cominciò a stabilirsi più saldamente la società gerarchica con i suoi interessi collettivi, con la sua disciplina, con la sua preoccupazione dell'unità formale. Le prime dispute nascono intorno al rito, poi si discute acerbamente del domma, e l'imperatore interviene nelle dispute e vende caro il suo appoggio all'ortodossia od ai dissidenti, finché in oriente, dove l'impero rimane, esso finisce con l'assoggettar la Chiesa quasi per intero: dove esso invece è poco meno che sommerso dalle invasioni barbariche e giovani stati nuovi si formano, la Chiesa, col privilegio che le viene dalla cultura latina, dai suoi riti, da una organizzazione già vigorosa, cresce in potere ed accumula privilegi e si impone, per molte vie, politicamente.
La storia del clericalismo, per tutto il Medioevo, è la storia del conflitto fra la Chiesa romana e il potere civile, con alterne vicende; sinché il protestantesimo, spezzando l'unità gerarchica ed assicurando, con la varietà delle confessioni cristiane egualmente ammesse, la piena indipendenza religiosa di ciascun cittadino non crea una condizione di cose intieramente nuova, per i paesi in cui riesce a prevalere; nella quale il clericalismo è ridotto in limiti assai brevi, come privilegio spontaneamente largito dallo Stato, per i suoi scopi, ad una confessione religiosa ufficialmente riconosciuta, con precedenza, ma non prevalenza sulle altre, liberamente esplicantisi.
E il clericalismo rimane allora caratteristica dei paesi nei quali la Chiesa cattolica, d'accordo col potere civile, è riuscita a respingere ed a vietare le sette dissidenti, con una trasformazione interna — la controriforma — basata sulla diffidenza, sul rigidismo formalistico, sulla censura, sull'inquisizione, sulla santa alleanza; la quale trasformazione ha però l'effetto di straniarla sempre più dalle correnti vive della società, di armare contro di essa la ricerca scientifica e la filosofia, di preparare la rivoluzione e il giungere della società civile, per altre vie, alla proclamazione della laicità.
L'anticlericalismo nel secolo XIX.
L'anticlericalismo, nelle sue forme presenti, è erede diretto di questa lunga ed assidua campagna condotta, dalla controriforma in poi, contro il monopolio ecclesiastico cattolico nei paesi latini. Liberazione della filosofia dalla scolastica, lotta contro i gesuiti e rifioritura delle tendenze regalistiche, razionalismo e critica beffarda del clero e dei dommi, individualismo romantico, insurrezioni, rivoluzioni e guerre civili per la limitazione del potere regio, per l'abolizione del monacato, della mano morta, del privilegio ecclesiastico; e, in Italia, campagna contro il potere temporale dei papi, caduta dei dominii pontificii nell'Italia centrale e superiore nel 1859 e nel 1860, e di Roma stessa papale nel 1870; tante furono le tappe successive di questa campagna liberatrice dell'anticlericalismo latino e italiano.
In questo anticlericalismo storico e vittorioso noi discerniamo tutte le varietà e le gradazioni; dalla semplice campagna contro il potere politico dei papi e la corruzione del clero, campagna tendente al risanamento del cattolicismo e del suo governo centrale, sino alle più audaci negazioni di ogni religione positiva.
Furono quindi anticlericali: Manzoni, che vagheggiava un cattolicismo civile tutto di bontà e di mitezza e di educazione e vita interiore delle coscienze; Rosmini, che voleva ricondotto il clero al suo ufficio, risanato dalle superstizioni e dall'ignoranza che lo deturpavano, ravvicinato ai laici con la elezione dei parroci da parte di questi, ristabilito, contro l'assolutismo romano, l'imperio dei canoni e dei concili; Gioberti che, dopo la delusione neo-guelfa, andò più innanzi e vide — precorrendo il modernismo — tutta la vecchia tradizione dommatica e ritualistica e papalistica disfarsi al soffio della critica, per sgombrare il terreno ad una rinascita dello spirito religioso e cristiano, ritessente le sue forme esteriori e sociali in armonia con la cultura e con la democrazia. Anticlericale la destra storica che, pur professando il maggior rispetto per la indipendenza spirituale dei papi, condusse il nuovo regno a Roma; Mazzini che dichiarava morto il cattolicismo, morente il cristianesimo, e proclamava un deismo di sua fattura, una specie di religione della democrazia per un ideale di bontà e di universale fraternità impersonato in Dio; i razionalisti che giungevano sino alla negazione di Dio e professavano che la guerra dovesse esssere spinta innanzi, contro il papa e contro le chiese, sino all'annullamento di ogni religione positiva.
Questo moto culminò nella legislazione ecclesiastica, cauta e graduale, ma ispirata ad un criterio risolutamente laico, fra il 1848 e il 1871, dalla cacciata dei gesuiti dal Piemonte alla legge delle guarentigie, sanzionante la caduta definitiva del potere temporale dei papi. Quali che fossero le segrete intenzioni di coloro che vi parteciparono, tutte le forze anticlericali unite condussero alla situane nuova che il Cavour riassumeva nella formula: «libera chiesa in libero Stato», e che dal 1870 durò immutata sino a noi.
Liberalismo e clericalismo dopo il 1870.
Alle sue origini il liberalismo invocò, come prima e fondamentale, la libertà di coscienza, la neutralità dello Stato in materia di credenze e di conflitti fra credenti; e, per un certo tempo, parve conquista sufficiente la piena eguaglianza di tutti i cittadini, qualunque fosse la loro fede, dinanzi allo Stato ed ai poteri pubblici e la liberazione da un governo terreno del clero che doveva necessariamente tradursi in servitù religiosa dei sudditi. Il raggiungimento di questa seconda liberazione con la presa di Roma segnò il culmine dell'ascensione del liberalismo: ed incominciò subito la discesa, caratterizzata dal premuroso ossequio verso l'autorità religiosa detronizzata, dal timore di offenderla, dalla rinunzia ad antiche regalie, dall'abbandono intiero di iniziative e provvedimenti che toccassero il regno delle attività dello spirito religioso, regno riserbato al pontefice ed ai suoi ministri e che questi cercano sia, il più possibilmente, de hoc mundo.
Non si pensò che, sino a quando il cattolicismo curiale ed ecclesiastico rimaneva quale era, una aperta e coerente e sistematica negazione delle libertà civili e della democrazia, sinché si osservava con indifferenza nei cittadini cattolici, e soprattutto nelle plebi rurali, la contraddizione patente che era in essi, fra la soggezione supina all'antico istituto chiesastico politico e la nuova coscienza civile, l'opera di liberazione religiosa rimaneva tagliata a metà. Si aveva cioè un certo numero di cittadini che erano volontariamente usciti dalla Chiesa ed ostentavano la loro irreligione, ed accanto ad essi un grande numero di credenti, soggetti ad un sistema di formule e di abitudini che ne estraniava l'intimo spirito dalla vita moderna, che li faceva politicamente docili e talora legati da tutta la loro esistenza alle pretese ed alle imposizioni del farisaismo romano.
Ma che avrebbe dovuto, ci si chiede, fare lo Stato? Immischiarsi di teologia e di sacramenti e di disciplina ecclesiastica? Intervenire nelle cose della Chiesa per forzarla a piegarsi a criterii e norme spirituali alle quali essa riluttava? Farsi di nuovo Stato sacrestano? In queste domande ed in questi timori sta l'equivoco e l'errore del quale il liberalismo italiano si è ostinatamente pasciuto; e che anche oggi esso oppone, quasi come un dettame sacro della coscienza dei padri, a chiunque richiami lo Stato ai suoi uffizii, in materia di diritto ecclesiastico e di fedi; come, ad es., l'opponeva il Corriere della Sera ad un discorso del Murri alla Camera su questo argomento.
Poiché quelle domande suppongono appunto una definizione e deliminazione di poteri intesa come la Chiesa cattolica medievale ha sempre voluto si intendesse: Stato e Chiesa, due istituti, due autarchie, due società, due regni, indipendenti l'uno dall'altro, paralleli ed avversi, sovrani ciascuno a suo modo e nel suo campo; e quindi la strana contraddizione odierna di due dottrine opposte, di due metodi antitetici, di discipline della vita escludentisi a vicenda.
Che doveva fare lo Stato? Rispondiamo: proseguire l'ora sua, continuare ad andare verso la libertà religiosa e verso la propria laicità. Proprio questo e null'altro.
Ma si badi che queste parole dicono assai più che non paia a primo aspetto.
Ricacciare il clericalismo dal terreno politico verso l'altare, non tollerare dirette inframettenze ecclesiastiche nella politica, essere vigilanti e severi contro l'abuso della propria autorità e del proprio ufficio, da parte del clero, per mene partigiane e settarie, far rispettare, almeno, leggi precise che a questo appunto intendevano. E invece ognuno sa a che si sia giunti su questo campo. Basti ricordare che, specie nelle ultime elezioni, la campagna elettorale fu spesso condotta dal clero nelle chiese e nel mezzo dei riti sacri e con minacce d'ordine spirituale a chi non votasse come il clero imponeva; basta notare che spesso apertamente le autorità ecclesiastiche hanno imposto ai cattolici di votare per un dato candidato e di non votare per gli altri.
Quali erano i doveri dello stato laico.
Laicizzare lo Stato significava abolire, certo con rispetto alle condizioni di fatto già esistenti, ma con persistente intenzione di modificarle dove fosse richiesto, qualunque privilegio accordato ad una confessione religiosa, qualsiasi forma di riconoscimento ufficiale dei rappresentanti di questa, qualunque confusione di attribuzioni e di uffici; laicizzare la scuola, in quanto essa è cura dello Stato, esimersi dalla diretta amministrazione del patrimonio ecclesiastico, contenere le congregazioni religiose nel rispetto del diritto comune, abolito, come doveva essere, e praticamente non fu, il loro essere quali collettività permanenti, mediante una pacifica trasmissione di beni fatta in frode dalla legge.
Lo Stato non doveva né deve tollerare certe forme ripugnanti di superstizione collettiva, quali si riscontrano non raramente nel mezzogiorno; non deve tollerare, violando anche qui la legge, con la liberazione della scuola media dei chierici dagli oneri della legge Casati, lo scempio che di giovani vite si fa nei seminarii, nei quali esse vengono private di fatto della libertà di scegliere la propria via e di disporre del proprio essere; non deve sancire, vietatosi anche qui ogni intervento a garanzia dei diritti individuali, la immorale rinunzia alla propria libertà che diviene, in spregio dei principii di ogni umanità, dedizione intiera e praticamente irrevocabile di alcuni individui ad altri; non doveva e non deve lasciare che, per una crescente perversione del costume ecclesiastico, il popolo dei credenti sia mano a mano spogliato di ogni suo diritto sui beni della Chiesa, la quale è appunto la comunità dei credenti; e che, mentre dei molti uffici sociali che vennero accumulando nella Chiesa potere e ricchezze nessuno è più conveniente compiuto, le ricchezze alimentino tuttavia l'ozio ingordo di una gerarchia orgogliosa ed inetta.
Qui voi vi scuoprite, dirà taluno: poiché, con questo, chiedete una specie di patronato del potere civile sulla società ecclesiastica.
Ebbene, rispondiamo, in un certo senso sì. Ma noi chiediamo quello che, da quando gli uomini hanno una civiltà, è sempre stato, quello che è ufficio inalienabile della sovranità civile, quello che voi stessi, solo con criterio antiquato e con erroneo giudizio dei fatti, esigete sia fatto e che il potere politico anche oggi fa, ma male.
Voi stessi dite che la Chiesa cattolica, per l'antichità e l'ampiezza e la forma della organizzazione sua, per i beni accumulati, per le sottili fibre che la legano al costume nazionale, per il seguirla docilmente che fa tanta parte delle folle, è ancora un grande istituto politico e sociale, la cui azione si riflette in mille modi nel campo delle attività e dei fini dello Stato; e che quindi la separazione è impossibile.
Ora noi ritorciamo contro di voi questo criterio. Lo Stato non può, per vostra confessione, disinteressarsi della Chiesa; e dà guarentigie al capo di essa ed approva le nomine ai benefici e fa altre simili cose. Ma con quale criterio fa questo? Per appoggiarla, per infrenarla o per combatterla? Inutilmente si chiederebbe una risposta a qualunque liberale. Lo fa perché lo fa, senza criterio, senza discernimento.
Ma questo istituto è con voi o contro di voi? Favorisce o combatte lo sviluppo della cultura e della civiltà umana, il bene della patria, l'arricchimento dello spirito umano? Che ne sa lo Stato? Esso professa, anzi, che non deve saperne niente. Proclama di dover agire ma di dover, prima di agire, chiudersi gli occhi. Se lavora a favorire chi vuol distruggerlo, e quindi a distrugger se stesso, o per contrario, ad ostacolare e ritardare chi gli assicura alcune condizioni essenziali della cultura umana, e quindi ancora a combattere sé stesso, non lo sa. Lo Stato laico è, in tale sentenza, lo Stato assente, lo Stato scettico, lo Stato imbecille.
E tale è veramente lo Stato Italiano: fa e non sa. Sorregge un istituto che lo combatte. Lascia piovere i suoi placet su qualunque testa chiericuta senza curarsi d'altro. Amministra pei vescovi, pei capitoli, per i seminarii, senza chiedersi mai come e perché, con quale serietà e con quale risultato, sono spesi i denari che amministra. Aumenta le congrue ai parroci ma per averli ligi, e poi ribadisce le catene di dipendenza di questi dai vescovi.
Ma noi che cosa chiediamo, invece? Una cosa estremamente semplice: che lo Stato sappia quello che fa, quando si immischia di materie ecclesiastiche, o quando preferisce di non immischiarsene; che, dovendo essere in rapporti con la Chiesa, abbia una sua idea intorno a ciò che questi rapporti debbono fruttargli; o volendo scioglierli, sappia sin dove si tratta di teologie e di riti e di confessioni alle quali è estraneo; o, essendosi svincolato dalle Chiese e dalle confessioni, e dovendo creare e fissare per queste la forme giuridiche delle loro associazioni e delle loro attività consociate, per gli effetti economici e civili di queste, — ufficio di sovranità al quale non può sottrarsi — sappia quali forme giuridiche convengono oggi a queste associazioni di culto e quelle proponga e sancisca.
In questo senso, e dentro questi limiti, noi crediamo che lo Stato laico debba farsi dei criterii proprii in materia di politica delle Chiese e dei culti ed applicarli logicamente e perseguire i suoi fini, quelli che sa essere suoi, in opposizione ad influenze che li neghino, in concorso con influenze che li favoriscano; applicare, insomma, a un ramo delle sue attività, oggi retto senza criterio e da forza di inerzia, una chiara consapevolezza.
E vorremmo che alcuno ci dicesse come si può fare a darci torto, messa così la questione: si tratta solo, abbiamo detto, di sapere se, in materia di politica ecclesiastica, lo Stato deve essere scemo od intelligente, corbello o prudente, inetto o provvido.
Le ragioni del clericalismo borghese.
Ma pure, che lo Stato fosse proprio sino ad oggi quel che dice il primo membro di ciascuna di queste antitesi si stenta a crederlo. Un suo criterio esso deve pure averlo avuto, regolandosi come ha fatto: e se pensiamo al noto e decantato buon senso ed al sano equilibrio del popolo italiano, deve essere stato, anche qui, un criterio di buon senso e di sano equilibrio che lo ha diretto. Cerchiamo, dunque, e troveremo.
Cercate, se vi piace; noi abbiamo trovato da tempo. Abbiamo trovato che la borghesia liberale italiana si è riconciliata interamente con la Chiesa cattolica il giorno in cui, venutile a mancare l'impulso ideale e la pressione di possenti interessi nazionali che l'avevano spinta sino a Roma, essa si trovò povera di uomini e di energie per proseguire l'opera rinnovatrice e decadde, e divenne avida di potere, paurosa delle difficoltà, venale e corruttrice. Tornando così indietro, trovò di nuovo nella sua via la Chiesa romana, e solidarietà di tendenze e di interessi li avvinse, e sotto la maschera dissimulatrice dell'antico dissidio fu organizzata la coalizione elettorale e politica che poi abbiamo veduto espandersi procacemente al sole.
Dapprima, e sino al 1870, il cattolicismo liberale di molti illustri italiani — quello del quale il Manzoni il Balbo il Tommaseo erano stati i più illustri rappresententi — operò di concerto con altre e più moderne correnti di pensiero, distaccantisi dal cattolicismo e risolutamente avverse ad esso, che si erano largamente diffuse fra la borghesia colta ed avevano in essa egregi rappresentanti. I cattolici liberali trovavano che togliere al papa il potere temporale era rendere un grande servigio alla causa del cattolicismo e, persuasi di questo, affrontarono coraggiosamente le collere pontificie; gli altri sentivano che più innanzi, allora, non si poteva andare, e pensavano che alla nuova condizione di cose la Chiesa si sarebbe presto acconciata, o che il progresso delle idee avrebbe più tardi condotto alla ripresa delle ostilità.
Dopo la legge sulle guarentigie, opera principalmente del Bonghi, le due correnti si divisero, e su tutte e due operarono cause diverse che le condussero egualmente a diventar clericali. Poiché i primi, raggiunto lo scopo, furono ripresi dalle preoccupazioni per l'istituto ecclesiastico, contro il quale, a malincuore, avevano pur dovuto agire e che vedevano da tante parti attaccato, con scopi più radicali. Gli altri ebbero paura delle loro stesse idee. Le giudicavano, forse, troppo aristocratiche per poter divenire cibo delle masse, se le confessavano interiormente troppo negative e distruggittrici, senza che apparisse chiaro che cosa di meglio sarebbe sorto dalle rovine; le vedevano riprese da altri, i socialisti e gli anarchici, che sorgevano minacciosi all'orizzonte e comprendevano in uno stesso odio l'istituto ecclesiastico e il civile, come strumenti di dominio della vecchia borghesia, la quale aveva bensì fatto una rivoluzione per suo conto, ma contro la quale bisognava ora farne un'altra, nel nome e per gli interessi del proletariato di tutto il mondo.
E questo in sostanza, a parte cioè le esagerazioni settarie e le arditezze rivoluzionarie, era vero. Proclamata la libertà dei culti, abbattuto il potere politico della Chiesa, rimossi tutti gli impacci della manomorta, di un diritto speciale per gli ecclesiastici, della tutela e della intromissione diretta della curia negli affari civili, la democrazia borghese aveva ridotto la Chiesa in condizioni tali da non essere più questa un ostacolo per essa: e cominciava invece a vedere i vantaggi che avrebbe potuto trarne. Quello che era avvenuto in Francia con il secondo impero, quando i vescovi erano chiamati i prefetti paonazzi, avvenne in Italia in forme diverse, per la speciale natura del conflitto fra la curia e la monarchia, dopo il 1870.
La psicologia degli uomini di questo periodo non ha avuto ancora uno studioso il quale sapesse dire agli italiani quale intimo accordo legava la corruzione morale delle classi alte alla bigotteria, la corruzione politica alla simpatia per il prete, la paura della nuova democrazia sociale al catechismo; noi ne diremo qualche cosa più innanzi; intanto il fatto non può essere contestato. Se la borghesia italiana che spadroneggiò rovinosamente dal 1870 in poi sulle cose del paese ebbe un intimo e costante dispiacere, fu quello di non poter andar a braccetto col clero e col papa, senza ipocrisie e senza riserve. A Giuseppe Zanardelli, che parve essere dei più fieri e tenaci anticlericali, un eroe autentico e sdegnoso animo di idealista, G. C. Abba, rimproverava acerbamente di non sapere essere né clericale né anticlericale, di trescare a volte a volte coi preti e di ingiurarli.
Per un unico processo, adunque, la borghesia italiana decade e si clericalizza. La incoscienza di un compito nobilissimo da compiere, quello che era già stato riassunto nella frase — far gli italiani — la rinunzia ad ogni ufficio ideale, il peso di una tradizione italiana, quale la sentiva fremendo il Carducci, troppo grande per le flaccide anime, la volontà del potere, le viltà delle timide e piccole transazioni con gli appetiti affaristici, con le ambizioni cupide, con le camorre locali, mettevano i partiti e gli uomini di governo nella impossibilità di intendere o solo di intravedere una ripresa della lotta contro il clericalismo nel nome dei più alti e vivi e profondi interessi della cultura, per la formazione di una coscienza nuova.
Le donne di corte, bigotte; l'aristocrazia terriera legata al parrocco e al cappellano che velavano di incenso il minacciato prestigio del loro possesso terriero; l'industrialismo, diffidente degli operai emancipati e delle organizzazioni di resistenza, ligio ai preti i quali ancora vedevano nello sciopero un dèmone nuovo e predicavano la docilità e la rassegnazione; la piccola borghesia, che aveva migliorato le sue sorti, paurosa delle idee nuove, conservatrice, il più spesso, per istinto, affidava al clero la difesa del focolare contro il mal costume, la fedeltà delle serve, i risparmi sudati. La campagna, senza scuole, senza arma di voto, credula, docile, continuava a chiedere alla Chiesa le poche soddisfazioni di vita collettiva, di splendore d'arte, i magri conforti della miseria che la Chiesa stessa gli veniva largendo da tempo. L'emigrazione, la cultura, la vita militare, la riscossa dell'organizzazione operavano assai lentamente ed il loro effetto, in molte parti d'Italia, è anche oggi appena sensibile.
E mano mano che la borghesia, insieme colle sue attitudini di efficace governo della cosa pubblica, con l'ingegno alacre e la volontà fervida, veniva perdendo le ragioni di influenza e di dominio ideale che sole possono conservare una minoranza a capo di un paese, le file dei suoi elettori, le sue clientele amministrative diradavano. Le schiere più docili, più serve, più pronte al comando le aveva conservate la Chiesa, quasi come riserva. A questa, dunque, bisognava rivolgersi. E se la necessità del nuovo alleato cresceva dall'una parte, dall'altra, da parte della Chiesa, interveniva oramai una ragione nuova di mobilizzare le truppe rimaste fedeli; anche esse erano ora minacciate, dopo il 1898, dalla penetrazione delle idee democratiche, dalla parola di riscossa lanciata efficacemente dalla democrazia cristiana. Lo spavento nelle file degli interessati protettori della Chiesa e quindi anche della Chiesa stessa, che temeva di perdere i beneficii di questa protezione, fu grande, fra il 1898 e il 1902; e ad esso si deve in parte la nuova condotta del Vaticano, dalla Graves de communi in poi, verso i democratici cristiani, sino al completo assoggettamento di essi ai placiti dell'autorità ecclesiastica, e all'espulsione dei riottosi.
Il Card. Sarto aveva sperimentato a Venezia con successo l'alleanza della riserva clericale con i moderati; quando egli fu papa, il momento era maturo per estendere questa alleanza a tutta Italia, molto più che tentativi infelici di sciopero generale avevano accresciuto lo spavento della borghesia; e vennero le elezioni politiche del 1904 e poi quelle del 1909. Il clericalismo si era imposto alla vita pubblica italiana e dominava oramai incontrastato.
Un altro fatto più strano rimane ancora da spiegare: la fiacca opposizione, a questa politica clericale, degli stessi partiti di estrema. Se l'accordo clericomoderato era stato concluso contro i sovversivi, questi non reagirono: l'anticlericalismo continuò ad essere un motivo di comizii e una occasione buona di retorica, alla quale non mancava mai il successo degli applausi; alla Camera esso faceva capolino solo in qualche interrogazione: e per una affermazione più seria non seppe trovare altro argomento che quello del catechismo nelle scuole elementari: argomento di importanza altissima, ma più teorica che pratica.
È noto, del resto, che anche dei deputati sovversivi parecchi hanno nelle elezioni l'appoggio del clero e ci contano; a più che parecchi fa comodo, per ragioni elettorali, non toccare il tasto dell'anticlericalismo, se non qualche volta, per delle brevi note d'accompagno.
La Massoneria, il cui caratteristico ufficio sembrerebbe appunto esser questo dell'agitare gli animi contro il Vaticano e contro la Chiesa e condurre la lotta, c'era, ma non si faceva viva. I pretesti per delle rare affermazioni dovevano ancora venire da frati liberi, arsi secoli addietro, o da liberi pensatori fucilati in altri paesi. Essa aveva un programma di anticlericalismo invecchiato e settario; domenicani dalla cocolla rovesciata, gesuiti in cappello floscio e in calzoni, i pochi massoni non dormienti, se non avevano chiara coscienza della ripugnanza che c'era fra il loro anticlericalismo, dogmanizzante ed intollerante, e le profonde e vitali ispirazioni della democrazia, erano pur tuttavia trattenuti dall'agire e fatti dubbiosi od inefficaci da questo intimo dissidio non avvertito. E spesso, del resto, avevano altro da fare. Leggete il manifesto pubblicato in questo stesso anno dalla Massoneria in occasione del XX Settembre, e troverete una tronfia e vuota declamazione retrospettiva, senza una parola sola che indichi consapevolezza di quello che resta ancora da fare in materia di politica ecclesiastica e dei culti.
Concludendo: la borghesia liberale, con le note riforme, liberò sé stessa dal dominio del clericalismo della Chiesa romana. Quando venne la volta di liberare il quarto stato dallo stesso dominio, diverso nelle forme, ma egualmente grave e pesante, essa si disinteressò di questo nuovo compito ideale, non solo; ma vide che la liberazione religiosa avrebbe preceduto o accompagnato o rinsaldato la liberazione politica e sociale e ne ebbe paura e si alleò col clericalismo per fronteggiarla.
L'ultima e decisiva lotta contro il clericalismo è quindi dovere incombente della nuova democrazia sociale. Essa rimane tale anche dopo il recentissimo accordo fra l'on. Giolitti e l'estrema; accordo che non darà garanzie di solidità e di efficacia sinché non includa i principii di una nuova politica ecclesiastica, anche oggi paurosamente evitati dal più grande facitore di elezioni che abbia avuto la borghesia italiana.
Sezione non disponibile per motivi di copyright. Il testo diverrà di pubblico dominio solo a partire dall'aprile 2014.
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