L. D'Angelo, F. Malgeri, S. Zoppi, P. G. Zunino
di Pietro Scoppola
di Sergio Zoppi
di Francesco Malgeri
di Lucio D'Angelo
di Pier Giorgio Zunino
Per molto tempo Romolo Murri è stato visto e studiato solo come figura del movimento cattolico italiano. Tale prospettiva è certo legittima in considerazione del ruolo centrale e indiscusso che egli ha avuto nella storia di quel movimento; ma tale prospettiva è tuttavia limitata rispetto all'intero arco della sua vita e alla complessità della sua esperienza. Di fatto il più lungo periodo della vita di Romolo Murri, quello che va dalla sua rottura con la Chiesa nel 1909 sino al ritomo alla Chiesa stessa, alla vigilia ormai della morte sopraggiunta il 12 marzo 1944, si svolge al di fuori del movimento cattolico. Ma questa lunga stagione della biografìa inumana, proprio in ragione della prospettiva in cui l'opera di Murri è stata studiata, tutta centrata sul movimento cattolico, è rimasta a lungo in ombra o quando è stata presa in considerazione è stata vista come radicalmente altra rispetto all'impegno iniziale del prete marchigiano: così abbiamo avuto in qualche modo una biografia inumana fatta di segmenti separati, priva di continuità. Vi è un punto di vista dal quale l'intero arco della biografìa inumana possa essere considerato unitariamente?
L'originalità e l'interesse di questo volume si ravvisano nel tentativo di proporre un nuovo e più ampio approccio nel quale le diverse e per molti aspetti contradditorie esperienze di Romolo Murri possano essere tutte ricomprese: tale nuovo punto di vista, nei saggi qui raccolti, è rappresentato dalla concezione della democrazia quale si è venuta dispiegando nel pensiero murriano.
Certo vi è una abissale distanza fra la concezione della democrazia che è alla origine della esperienza murriana, che Sergio Zoppi delinea nella sua relazione, e i motivi che spingono Murri, nella ultima fase politica della sua vita, ad una sostanziale adesione u fascismo. Eppure nella originaria proposta murriana vi sono i genni di una concezione palingenetica della democrazia, di una entificazione fra democrazia e cristianesimo che in forme diverse riapparirà nelle fasi successive della sua vita e anche in quella che lo porta alla adesione al fascismo.
Il pensiero di Murri, lungo tutto l'arco della evoluzione della sua militanza politica, è connotato da una forte tensione utopica e volontaristica: la democrazia per lui prima e assai più che assetto istituzionale fondato su diritti civili e politici, su garanzie nell'esercizio del potere e strutture rappresentative, è volontà di radicale riforma morale; è rivoluzione alla base stessa della società e della coscienza pubblica. L'antimaterialismo è un elemento di continuità nel pensiero murriano che si manifesta nei confronti della borghesia come anche nei confronti del socialismo riformista e della azione sociale e politica che esso svolge. La concezione della democrazia che Murri propone è altra cosa dalla lotta che il partito socialista conduce per la conquista di condizioni materiali più elevate di vita per le classi lavoratrici.
L'approfondito confronto fra Sturzo e Murri che Francesco Malgeri sviluppa nel suo saggio rappresenta un punto di snodo essenziale per caratterizzare il concetto murriano della democrazia.
Malgeri va oltre la vecchia polemica storiografica sulla primogenitura fra Murri e Sturzo per quanto concerne le origini della democrazia cristiana. Non c'è dubbio, egli osserva, che senza la prima democrazia cristiana inumana, che ebbe una decisiva influenza nella formazione di Sturzo, non sarebbe nato il partito popolare. Ma il problema è un altro : è quello delle ragioni profonde di divergenza, che si manifestano già nella fase della prima democrazia cristiana e che porteranno ad un insanabile distacco fra i due uomini. Sturzo non crede - nota giustamente Malgeri - alla virtù taumaturgica della democrazia cristiana, non crede che la proposta di una idea sia sufficiente alla trasformazione dei rapporti sociali e alla realizzazione di una nuova società. Alla visione idealistica volontaristica della democrazia proposta già dal primo Murri, che non a caso trova in una radicale riforma religiosa un suo necessario punto di riferimento, Sturzo contrappone una concezione assai più realistica, legata alla storia e alla consapevolezza di un lento processo di crescita che coinvolge e interpella la presenza cattolica. "Noi non abbiamo - scrive Sturzo - la concezione felice della società; noi non speriamo i trionfi assoluti del bene come non crediamo ai trionfi assoluti dei male: ma nella lotta perenne che guida l'umanità attraverso la storia, noi vediamo il disegnarsi delle grandi correnti cristiane, flusso vitale di questa perenne azione soprannaturale della Chiesa nella società". Con queste sue parole Sturzo - ci sembra - si colloca già oltre ogni illusione di un compiuto ordine cristiano della società: Sturzo è già sensibile alla idea della democrazia come processo sempre aperto al quale i cristiani devono portare il loro contributo accettando e valorizzando la dimensione laica della politica.
Anche l'esperienza radicale di Murri, cui Lucio D'Angelo dedica un attento saggio, è segnata da quello che definirei il suo massimalismo etico. Murri nella prima fase della sua esperienza culturale e politica aveva assegnato alla Chiesa il compito di un palingenetico rinnovamento sociale. Quando la Chiesa gli appare legata agli interessi costituiti, incapace di rinnovarsi al soffio della libertà in un confronto aperto con il pensiero moderno, la Chiesa e il clericalismo diventano "negazione immanente" della democrazia; la democrazia diventa essa stessa una religione, quasi una forma di religione secolare nella quale si avvertono gli echi della predicazione mazziniana.
Ma la sua militanza nelle file del radicalismo italiano è inquieta e insofferente di tutti i compromessi del radicalismo stesso con la pragmatica politica giolittiana: Murri sarà fra coloro che contribuiranno a quella rottura fra i radicali e Giolitti che porrà fine alla età giolittiana, ma che aprirà di fatto le porte al governo Salandra e alla avventura dell'interventismo con tutte le sue conseguenze nel periodo postbellico.
Il suo ritrovarsi vicino al fascismo nella illusione che esso possa essere il protagonista di un profondo e radicale rinnovamento spirituale del paese rompe la continuità della scelta democratica ma è in qualche modo in linea con il modo più profondo in cui Murri ha concepito la democrazia; Piergiorgio Zunino, nel suo breve ma penetrante contributo, può indicare un elemento di continuità fra la concezione murriana della democrazia e la sua adesione al fascismo nella permanente opposizione di Murri al "materialismo borghese". È per questo motivo che alcuni degli uomini più significativi della cultura fascista, da Gentile a Volpe, potranno collocare Murri fra i precursori del fascismo.
La verifica di questa ipotesi interpretativa diretta a cogliere una continuità sostanziale nel pensiero murriano richiederà naturalmente più ampie ed approfondite verifiche; vi sono momenti ed aspetti della esperienza murriana che non vengono esaminati in queste pagine o che vi compaiono appena: così per quanto riguarda l'esperienza della Lega democratica nazionale o la partecipazione alla scelta interventista. In entrambe queste esperienze Murri appare sempre legato alla tendenza a dare un valore globale e in qualche modo religioso alle sue scelte politiche. Gli sfugge il senso della relatività della politica e della sua radicale alterità rispetto alla esperienza religiosa.
Una ipotesi dunque da verificare e da approfondire, quella che emerge da queste pagine, e tuttavia suggestiva e stimolante, che al di là del contributo che può portare ad una più organica e unitaria comprensione della tormentata vicenda murriana può arricchire la riflessione sempre aperta sul rapporto fra fede e politica.
La strada che il concetto di democrazia percorre in Romolo Murri, dagli anni giovanili sino al termine dell'esperienza democratico cristiana, è lunga e accidentata. Non è un percorso lineare, né è sicuro l'approdo.
L'amore sviscerato per la Chiesa, la passione civile, la partecipazione al dramma dei deboli e alla speranza dei giovani, il profondo bisogno di rinnovamento culturale, il grande ruolo che è chiamata ad assumere la democrazia politica, si mischiano prepotentemente in lui. Da questo magma di pensiero e di passione, che lo spinge irresistibilmente all'impegno pratico, da queste energie vitali e non sempre controllate, fluisce, come una corrente non contenuta in argini sicuri, la sua visione democratica, la quale anche dopo anni, e al termine della feconda esperienza democratico cristiana, non è mai completamente cristallina.
Giovane studente, letta la Rerum novarum - che apparve una rivelazione allo stesso sorvegliato Luigi Sturzo - annotava nella sua agenda segreta il proposito di dar vita a un foglio a stampa, non casualmente intitolato "II Labaro", che avrebbe dovuto essere un giornale cattolico, politico-letterario, organo di un partito politico parlamentare per sostenere i diritti della Chiesa e della giustizia[1].
Sono sufficienti pochi anni, nei quali fa tesoro della partecipazione ai congressi dell'Opera, dell'insegnamento universitario statale con il magistero di Antonio Labriola, della palestra di idee che è la sua "Vita nova", perché il Murri esponga la sua visione dell'organizzazione dello Stato e della partecipazione popolare alla vita civile, che, pur su uno sfondo teocratico, si orienta secondo i dettami della democrazia politica.
Con "La vita nova", alla fine del 1894, un pugno di intellettuali, giovani e vivaci, fa l'ingresso nella famiglia dei cattolici intransi-genti italiani. L'Opera dei congressi - sorta tra molte difficoltà per Preservare, secondo la volontà dei suoi promotori, la società cattolica, minacciata dal liberalismo e dal socialismo, e per mantenerla lontana dalle "contaminazioni politiche" - nei suoi oltre vent'anni di vita aveva tenuto fede a quei princìpi, accrescendo il numero e la forza dei comitati diocesani e parrocchiali su cui era articolata[2].
Ma, con l'avvicinarsi della fine del secolo, il mondo cattolico organizzato perde la propria compattezza: soprattutto tra le nuove generazioni mutano gli orientamenti, come mostra "La vita nova". Quei giovani, usufruendo degli strumenti che i tempi mettevano a disposizione, scuotono da un certo torpore le gloriose organizzazioni, imponendo idee e metodi nuovi, nell'ansia di giungere presto a rifare, come affermavano, l'Italia cristiana. Sembrava loro che un fresco soffio di vita potesse diffondersi nel paese, per schiudere un avvenire ben diverso dall'opacità del presente e reso meno difficile dalle parole del pontefice che, nella Rerum nova-rum, aveva chiamato i cattolici ad ampi e definiti impegni in campo sociale. I giovani più preparati, imbevuti della cultura e dello spirito di libertà conosciuti nelle aule universitarie, sentivano il bisogno di riunirsi, di affinare le idee e di coltivarle, di trovare gli strumenti con i quali esprimere e far conoscere i propri pensieri. Di fronte a loro c'era tutto il popolo, ancora poco toccato dalle esistenti organizzazioni cattoliche e immune dalla propaganda dei partiti, da conoscere, da svegliare, da rinsaldare nella fede cristiana, da conquistare a una più larga giustizia sociale e a maggiori traguardi civili.
Romolo Murri intendeva fare de "La vita nova" un luogo di incontro e una fonte di idee che avessero come compito "quello di sforzarci d'intendere bene le condizioni e i bisogni veri de' tempi e quindi le basi della vita nova."
Il giovane sacerdote marchigiano, che sentiva risuonare nelle orecchie le parole del Labriola, dal quale aveva appreso l'esigenza di storicizzare problemi e fatti e di distinguere tra marxismo dialettico e pratico, aveva impresso vivacità alla rivista, dandole anche un'impronta impegnata, riscontrabile solo in poche altre pubblicazioni cattoliche. Nei piccoli fogli de "La vita nova" difettava forse un indirizzo ben precisato, un fine esattamente chiarito, ma ogni articolo mostrava quell'impegno e quella spregiudicatezza che rendevano evidente come il piccolo gruppo di giovani avesse aperto gli occhi al mondo e si guardasse intomo soffermandosi, con particolare attenzione, sulla vita pubblica del proprio paese, della quale c'erano tante cose da scoprire e da rivedere.
Il 1895 non era ancora giunto al termine che dalle colonne de "La vita nova" si levò l'appello agli studenti cattolici italiani -sottoscritto da una ventina di nomi - perché si raccogliessero in una federazione a carattere nazionale[4]. Con questo primo tentativo di dar vita a una associazione che raggnippasse tutti gli universitari cattolici, i redattori si proponevano di unificare le forze giovanili per inserire nel mondo cattolico una componente, sensibile alla cultura dei nuovi tempi, che avrebbe presto dovuto fungere da pilota all'intemo dell'Opera dei congressi e dei comitati cattolici. Il Murri, che da "La vita nova" denunciava le carenze culturali del clero, sovente privo di una preparazione adatta ai tempi, continuava il lavoro per costituire la federazione nazionale della quale il rinnovato circolo romano, alla cui presidenza, per il rifiuto dell'ideatore, era stato chiamato il Mattei Gentili, era la premessa.
A metà del nuovo anno, il Murri, nell'illustrare il programma dei circoli, in un lungo articolo dal titolo significativo "Educazione Politica", sostenne che i giovani avrebbero visto la rovina o il rifacimento cristiano dell'Italia, spettando a essi prendere parte attiva agli avvenimenti che maturavano.
Poco dopo aggiungeva:
Troppo poco dunque, con la conseguenza di rimettersi "all'arbitrio de' nostri nemici mortali", mentre occorreva preparare "con ogni maniera gli intelletti nostri a trattare con competenza questioni politiche." Invitava quindi gli studenti cattolici
Nell'articolo si trovano in nuce alcuni temi che ricorreranno nel pensiero e nella propaganda del Murri: l'impreparazione dei cattolici, la necessità di studi seri e moderni, l'importanza dell'azione sociale e politica, l'urgenza di una rivista di studi politici e sociali.
Nasce da qui la "Cultura Sociale", quindicinale di battaglie politiche e di forte impegno culturale, il cui primo numero uscì nel gennaio 1898[6]. Proprio l'anno in cui, tra l'aprile e il maggio, scoppiarono i moti milanesi con le repressioni che ne seguirono e che non poco incisero sugli orientamenti futuri del Vaticano e del Quirinale.
Nel luglio successivo, il Murri sulla "Cultura" notava con sintetica efficacia:
La polemica con gli intransigenti, i mutamenti sociali e politici, la presenza socialista, accelerarono la nascita del movimento democratico cristiano.
In tré articoli, a partire dall'aprile 1899, il Murri esponeva le sue idee, maturate alla luce di quanto era avvenuto e stava avvenendo nella politica italiana. In questi "Propositi di parte cattolica" (un titolo quanto mai significativo) in cui si dichiarava interprete di quella generazione nuova dei cattolici italiani che orgogliosamente sosteneva "noi abbiamo cessato di subire la vita italiana, cominciammo a dominarla", il Murri, nel ripercorrere il passato, notava i difetti che avevano accompagnato l'azione dei cattolici italiani negli ultimi decenni per osservare, subito dopo, che mentre la politica era ancora appannaggio di poche migliala di persone e la vita economica languiva, proprio i cattolici, ai quali gli italiani cominciavano a rivolgere gli occhi, potevano essere le forze rinnovatrici. Il Murri, respingendo la tesi di coloro, un numero crescente, che auspicavano per il paese un partito conservatore di matrice cattolica, notava che un tale partito avrebbe obbedito agli interessi della classe dominante cosicché "il movimento vero, quello che noi vagheggiamo, sarebbe stato, se non assolutamente compromesso, ritardato di almeno venti anni."
Il Murri si soffermava poi sul presente, rivangando le tesi statutarie che altre volte aveva avuto modo di enunciare. I cattolici, affermava, dovevano reclamare i diritti statutariamente garantiti e in questa battaglia potevano trovarsi uniti ai radicali e ai socialisti. Per il Murri non si trattava però di svolgere un'opera di semplice rivendicazione; occorreva affiancarle un'azione nuova che si incentrasse su un programma originario dei cattolici italiani per giungere a quella palingenesi della vita sociale che, auspicata dal Toniolo, il sacerdote marchigiano riprendeva pienamente e faceva sua. Proprio il cattolicesimo sociale è la bandiera che il Murri agita nei tré articoli sulla "Cultura", un cattolicesimo che, agendo in piena sintonia con il papato, deve prefìggersi di sbaragliare gli oppressori e i nemici di sempre. Don Romolo, sviluppando la radicale contrapposizione allo Stato borghese, sosteneva essere un bene che i cattolici ritardassero il loro ingresso nella vita politica fino a quando fossero apparsi a tutti evidenti l'esaurimento e la degenerazione degli ordinamenti politici e le forze cattoliche non fossero state in condizione di educare il popolo per poi introdurlo nella vita politica. I cattolici dovevano compiere una "opposizione stabile, sistematica, ad ogni costo" per combattere la borghesia italiana che da rivoluzionaria si era fatta reazionaria. I cattolici, per il Murri, avrebbero trovato il segno di distinzione dai conservatori e dai socialisti nell'essere partito d'ordine, partito dell'armonia delle classi, per l'onestà di cui avrebbero fatto la regola nella vita pubblica, per le profonde riforme sociali. Essi avrebbero dovuto battersi per un programma politico dai capisaldi ben delineati:
In definitiva, occorreva per Murri dar vita a un grande partito nazionale, recuperando gli stessi valori del Risorgimento al quale, ricordava, i cattolici avevano collaborato attraverso il movimento neoguelfo che ebbe anche il grande merito di neutralizzare "la resistenza che alle riforme posteriori avrebbero potuto opporre i cattolici e non opposero." Ma un partito, aggiungeva, preparato dall'astensione che aveva evitato di avere
Il profondo solco tra cattolici e liberali, causato dalla presa di Roma, si andava colmando, soprattutto dopo il '98, per l'interesse delle classi dirigenti a chiudere il passo al socialismo e per i timori del mondo cattolico di una rivoluzione che avrebbe distrutto gli equilibri del presente, precari e insoddisfacenti ma tanto faticosamente raggiunti. Il Murri, che avvertiva la possibilità dell'evento e lo stimava il più grave dei pericoli, ne traeva stimolo per mantenere, con martellante continuità, precisi distinguo.
I Propositi, ampiamente conosciuti e attentamente valutati, risuonarono come un preciso richiamo, un vero e proprio programma d'azione, rivolto a quei cattolici che avvertivano la necessità e l'urgenza di agire per il rinnovamento d'Italia. La ricostruzione del passato, l'analisi del presente, le previsioni per l'avvenire si accompagnavano all'invito alle forze nuove del cattolicesimo italiano a raccogliersi per studiare e lavorare al fine di dare al paese un volto diverso, aderente a quelle che Murri individuava come le necessità del momento. Per la prima volta, dopo l'occupazione romana, un cattolico, un cattolico in abiti talari, assume la politica come il terreno sul quale costruire un programma e una proposta d'azione. Accantona, anche se le condizioni del papato pesano sulla sua riflessione, la polemica delle rivendicazioni territoriali. Dichiara anzi di non voler rimettere in piedi un passato che ormai ha fatto il suo tempo e prende posizione su temi propri delle forze democratiche, dando una prima fisionomia a un programma che, tra i suoi capisaldi, ha il riordino delle imposte, il decentramento amministrativo e il suffragio universale. Se ancora si scorge qualche retaggio del passato, sono però poste le premesse per un'opera di educazione civile e politica che richiederà, nel tempo, un vasto impegno culturale e organizzativo.
Questo lottare per cambiare le cose, attraverso una democrazia che è insieme sociale e religiosa, questo porsi sempre al lato della cattedra di Pietro nel valutare le cose della politica, "con Roma e per Roma, sempre" è riespresso, con grande vigore ed efficacia, di lì a poco, nel 1899, allorché il Murri sviluppa una vivace polemica con Filippo Meda, sempre nelle colonne della "Cultura", che mira a smuovere il mondo cattolico per il tema affrontato: i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Il Murri nella prima lettera, dopo aver dato atto della fruttifera attività degli amici che avevano contribuito a fare di Milano assieme a Roma una delle due città d'avanguardia del pensiero cattolico, si soffermava sul contrasto, a Milano non avvertito, tra il Quirinale e il Vaticano.
Più oltre, dopo aver rilevato che i cattolici erano estranei da troppi campi e soprattutto da quello civile, affermava:
Il Murri sintetizzava la critica alla società moderna e l'urgenza del momento ne
Al Murri sembrava necessario raggiungere l'accordo della Chiesa col popolo per la lotta al "comune nemico", lo Stato moderno. In ciò egli riassumeva il programma del suo operare, il patto di Roma della nuova democrazia. Il direttore della "Cultura" vedeva i rapporti tra Quirinale e Vaticano come una lotta senza tregua, al termine della quale la Chiesa doveva schiacciare quello Stato e rifare ab imis l'Italia. I mali dello Stato liberale, le sue eccessive ingerenze, il soffocamento delle autonomie locali, il disagio economico e morale dei cittadini erano per Murri non tanto pecche da eliminare quanto sintomi irrefutabili della malvagia azione di un organismo che andava distrutto e rinnovato.
La risposta del giovane giornalista milanese dette il metro per valutare la diversa visione della situazione tra i due esponenti della democrazia cristiana. "Io dico", sosteneva il Meda, "che noi dobbiamo fare cessare la guerra dello Stato contro la Chiesa, e ridurre i rapporti tra le due grandi società a condizioni di giustizia e di pace." Al Murri che parlava di una lotta continua, che doveva chiudersi con la indiscussa supremazia religiosa, il Meda replicava: "Se la grande Chiesa non si può avere adesso, accontentiamoci magari di una capannuccia: lì si formeranno i fedeli, che a poco a poco ci daranno i mezzi per erigere la cattedrale."
E, contrastando nettamente col pensiero murriano che nella questione non si distaccava da quello dei veneri intransigenti, ^giungeva:
Don Romolo nella risposta, dopo aver paragonato il programma del Meda a quello dei neo-guelfi alla vigilia del '48, aggiungeva, approfondendo i motivi della sua lotta allo Stato:
La lotta allo Stato, precisava, è una lotta "fra la borghesia liberale irreligiosa, che possiede, e la democrazia cristiana, che sale", contro uno Stato quindi "espressione dei gusti e dei desideri di una parte del popolo" rappresentante "un mezzo colossale di oppressione e di sfruttamento sociale nelle mani di coloro che occupano i poteri politici più alti e dei loro mandanti, se ne hanno." Il grande nemico da sconfiggere rimaneva per il Murri la borghesia, la classe atea che spremeva la nazione senza niente dare, della quale, nella stessa lettera, tracciava un profilo durissimo:
Il Meda replicò sostenendo che occorreva salvare lo Stato:
Il discepolo dell'Albertario era convinto che fosse indispensabile formare una coscienza su base nazionale e poi agire:
Nelle lettere del Murri lo Stato e la democrazia borghese, quali si erano andati realizzando in Italia, sono il nemico da combattere, addirittura mostro da distruggere per consentire poi l'instaurazione di una democrazia vera e interamente nuova. I governanti impersonificano lo Stato laico, accentratore, spoliatore della Chiesa. L'antitesi tra Quirinale e Vaticano non potrebbe essere più netta. Murri invoca una lotta aperta, senza patteggiamenti, per lavare, come egli dice, l'Italia dai suoi mali. La critica alle condizioni del paese viene spinta alle estreme conseguenze, diventa un capo d'accusa capitale per distruggere lo Stato liberale. È dalla nuova Roma che per Murri si inaugura un'epoca nuova, il cui spirito di lotta dovrà diffondersi ovunque e del quale egli sente di essere l'artefice. Il giovane sacerdote - sul quale influiscono gli insegnamenti appresi nell'università romana, le sollecitazioni che riceve dai contatti continui con le regioni, le province e le città italiane, i rapporti con i suoi corrispondenti europei, le relazioni con la Roma parlamentare, partitica e amministrativa - si è fatto un convincimento: solo un programma avanzato e uomini nuovi, con il sostegno della Chiesa, possono mettere fine a un regime nocivo. È necessario far rientrare i cattolici nella vita e nella storia del loro Paese; e attraverso un cattolicesimo impegnato e rinnovato si rigenererà tutta quanta la società italiana. Il non expedit è lo strumento contingente e necessario, non solo accettato ma esaltato, per separare i cattolici dalla cattiva politica, rafforzarli e, al tempo stesso, per corrodere le basi indebolite delle oligarchie dominanti. Poi, e non tardi, verrà il momento per conquistare alla democrazia tutta quanta la società.
L'azione del Murri si dispiega venti anni dopo la nascita dell'Opera dei congressi. Gli intransigenti avevano lottato, tra l'opaca indifferenza o l'aperta ostilità, riuscendo a costruire un' organizzazione nazionale e, in non poche regioni, con buona presa sulla società, un'organizzazione i cui principali nemici erano inizialmente lo Stato usurpatore e il governo liberale. Quando il giovane marchigiano inizia la sua attività, l'Opera ha raggiunto una discreta organizzazione ma il clima generale non è più quello dei primi anni dopo il 1870.1 cattolici, che si trovano a contatto di gomito coi moderati nei consigli comunali e in cento altre attività, sono quasi tutti monarchici e ritengono l'unità d'Italia una realtà insopprimibile; continuano con passione la lotta ma non tanto per distruggere, quanto per modificare la vita pubblica e per inserirvisi compiutamente, nel momento che in alto sembrerà il più opportuno.
Il Murri, al contrario, non intende far suo quel patrimonio, respinge le esperienze ormai consolidate nelle città e nei paesi. Vuole un partito che raduni tutte le forze cattoliche e si oppone ai vecchi dirigenti dell'Opera non solo per le mète che egli pone al proprio agire ma anche per lo stesso metodo che usa nell'azione. Prete ancora giovanissimo critica ogni cosa del passato e del presente, vuoi muoversi a passo di corsa cercando di coinvolgere lo stesso clero nell'azione politica, così come cominciava ad avvenire nella sua piccola regione, le Marche.
In breve, per Murri, occorreva far cristiana la democrazia e mettersi dalla parte del popolo.
Mentre la democrazia cristiana allarga i propri confini, ottenendo riconoscimenti e successi in numerose regioni italiane, nell'ultimo anno del secolo il Padre Torregrossa stampa un libriccino di larga eco, Perché sono democratico cristiano, che conteneva pensieri di ordine fìlosofìco-dottrinario terminanti nel riconoscimento dell'urgenza dell'azione sociale. Era un po' il codice del cattolico in attesa di poter fare politica e trattava dell'azione sociale della Chiesa nell'età moderna con particolare interesse ai problemi della questione operaia, della proprietà e del lavoro, dei diritti dei lavoratori e dell'organizzazione corporativa per concludere sulla missione dello Stato cristiano e sul valore della democrazia cristiana[12].
Gli fece eco il Toniolo con il breve libro di carattere più dottrinale, La democrazia cristiana. In quelle pagine essa era intesa come movimento in favore del popolo per cui molto si attendeva dalla resipiscenza delle classi superiori. La stessa celebre definizione di democrazia, intesa come "quell'ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell'ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori", metteva in risalto essenzialmente il carattere etico-sociale delle proposte[13].
Diversa e più ampia - e non per un caso ospitata dal Murri - era la definizione che, due anni prima, aveva dato della democrazia sulla "Cultura sociale" Igino Petrone. Definita la democrazia come
e affermato che
egli illustrava i caratteri della democrazia liberale la cui esperienza parlamentare altro non era che una impalcatura senza punti di contatto coi bisogni, con le aspirazioni, con le condizioni di vita delle classi rappresentate. Occorreva, per il Petrone, che il sistema proporzionale di rapporti politici venisse integrato dalla proporzionalità dei rapporti sociali. Da ciò scaturiva il concetto di democrazia cristiana che
Come ha osservato Bobbio, "Murri è prima di tutto un uomo d'azione che vuole raggiungere lo scopo, che pur di non retrocedere, di restare sempre sulla linea del fuoco, muta posizione e bersaglio."[15]
In questo agire del Murri - una vita di alzate e cadute, sempre per ricordare il filosofo e storico torinese - nei suoi generosi tentativi di piegare ogni cosa al fine di raggiungere le mete fissate, nemmeno la Graves de communi, l'enciclica che nel 1901 riduce la democrazia cristiana a "beneficam in populum actionem chri-stianam", viene presentata come un ostacolo insormontabile.
Questa definizione del resto poteva ben adattarsi a quei propositi inumani, non di rado affioranti nelle parole e negli scritti del sacerdote marchigiano, che tendevano a fare della lotta politica un movimento a favore delle plebi ignorate e sacrificate dallo Stato liberale.
Anzi il riconoscimento dato all'espressione democrazia cristiana divenne l'appiglio che permise ai giovani di imprimere una nuova e vigorosa spinta alla loro azione. Dalla pubblicazione dell' enciclica prende infatti il via il grande sviluppo del movimento democratico cristiano; "quasi una storia epica" definì il Murri l'espandersi dei circoli, dei fasci, delle sezioni, il sorgere di una vivace stampa nazionale e regionale che a volte, come "II domani d'Italia", che proprio allora cominciò a essere pubblicato, raggiungeva tirature sorprendenti per le pubblicazioni cattoliche[16].
Il movimento si espandeva dando corpo a raggruppamenti " con larga autonomia e vere e proprie palestre di educazione civica e politica - nei quali l'azione politica prevaleva nettamente sulle tematiche religiose e sociali. In questo clima di fervore operoso il Murri indirizzò al papa una lettera nella quale affermava di avere atteso con ansia l'enciclica perché, mentre altri stavano in disparte, egli era stato, sin dall'inizio, in prima linea nell'azione di apostolato e di sollievo degli umili contro le offese del liberalismo e le insidie del socialismo. Dopo aver riepilogato i timori e le difficoltà frapposte alla sua opera, aggiungeva di aver atteso con trepidazio-ne le parole del papa che tanta gioia gli avevano procurato. "A me parve", proseguiva, "quasi che il vincolo indissolubile che aveva legato la mia vita e tutta la mia azione a questa santa causa guelfa fosse benedetto e consacrato dalla parola esplicita della Santità Vostra." Nella stessa lettera, dopo aver rinnovato il profondo ossequio e la piena ubbidienza sua e degli amici, assicurava che egli, assieme a essi, avrebbe atteso a "distinguere nettamente la democrazia cristiana da ogni agitazione a scopi politici e specialmente insegnare al popolo che le sue legittime rivendicazioni non esigono la conquista dello stato e uno speciale regime democratico."
Ai socialisti, che su l'"Avanti!" avevano criticato la Graves de communi definendola un documento eminentemente conservatore, don Romolo rispose che con l'enciclica la Chiesa "voleva rassicurare i buoni che temettero compromessi dalla democrazia cristiana quei beni sociali e voleva offrire alla società minacciata e allarmata il suo appoggio contro la democrazia socialista, perché essa più volentieri accettasse la sua opera salvatrice." Il quotidiano socialista lo aveva accusato, per aver difeso l'enciclica, di essersi schierato con le classi conservatrici in lotta contro i partiti operai ed egli, in uno slancio appassionato, rispose scoprendo forse degli intimi sentimenti che erano riusciti, questa volta, ad affiorare dal suo animo e a prendere una ben definita forma:
Nell'ottobre del 1900 a Fabriano, in un affollato convegno e accolto da entusiastici applausi, il Murri parlò del programma nuovo dei cattolici italiani e dell' urgenza di far penetrare l'influenza dei cattolici ovunque per restaurare tutto in Cristo, che era poi il programma, così aggiunse, della democrazia cristiana. Egli dichiarò inoltre:
Murri ha consumato i suoi anni migliori, gli anni della gioventù e della prima maturità, gli anni dell'azione carismatica, nel tentativo di suscitare un movimento politico d'ispirazione cristiana. Ma se nei Propositi - che ricordo sono del 1899 - il programma politico del Murri è un rivificato neo-guelfìsmo che significa "un'intima unione fra la vita sociale e la religione, fra gli istituti popolari di vita economica e civile e la Chiesa animatrice e regolatrice potente", a San Marino, appena tré anni dopo, riproponeva il programma guelfo, ma con ben altri accenti.
Programma guelfo, precisava, che
Nel gennaio dell'anno successivo, siamo nel 1903, su "II domani d'Italia" ("Quello che volemmo") scriveva:
Azione politica, questioni religiose, riflessione filosofìca, passione civile, presenti ancora l'anno successivo, il 1904, in quei mesi di svolta per il movimento inumano, e per tutta l'organizzazione cattolica e per il regno: crisi dell'Opera, sciopero generale politico, scioglimento della Camera, superamento del non expedit.
Poco tempo trascorre e Sturzo, il giovane allievo di Murri e che dal Murri tanto apprese, collocherà, nel discorso di Caltagirone del 1905, i cattolici democratici all'intemo di una netta e limpida caratterizzazione politica, laica e positivamente partecipativa alla vita civile.
Ma, in quella stessa occasione il sacerdote calatino, che pur nelle ultime vicende era stato tanto severo col Murri dopo il discorso di San Marino, non poteva fare a meno di annotare che: Se il movimento democratico cristiano, come sembra ad alcuni pessimisti (e lo siamo un po' tutti nei momenti di sconforto), avesse compiuto il suo ciclo e non dovesse più nulla tentare nel campo della vita sociale e politica in Italia, esso avrebbe avuto una funzione importantissima nello sviluppo del movimento dei cattolici in Italia: quella cioè di aver prodotto o almeno di essere stato l'esponente più visibile della trasformazione del pensiero e dell'atteggiamento dei cattolici italiani verso la vita moderna e i problemi che da essa sorgono ad agitare la coscienza umana. Subito dopo affermava:
Questa evoluzione - che si pone nel cuore stesso del sentire e dell'agire democratico - non sarebbe avvenuta senza il genio politico e la passione educatrice e civile di Romolo Murri.
Se la sua visione politica non fu sempre limpida, non possono essere dimenticati ne i suoi studi e le sue proposte, ne il rinnovamento (a partire dalla stampa quotidiana e periodica) nella presenza civile dei cattolici, ne infine l'opera educatrice di migliala di giovani che nei circoli e nelle sezioni, nel rapporto concreto e quotidiano con la realtà, assunsero pienamente le regole del gioco democratico sapendo perfino, malgrado l'amore viscerale per il loro capo, distinguersi da lui quando si incamminò, di lì a poco, per una strada dagli sbocchi totalmente diversi rispetto alle premesse.
Malgrado gli errori però, il Murri non fu mai un "profeta fallito, cervello dipendente", non prete mentalmente pigro e dogmatico[21] ma testimone autorevole seppure tormentato del cammino spirituale e civile di quanti cercheranno di ricongiungere la fede e la Chiesa con il mondo contemporaneo e alfiere di un riformismo sociale e politico da non dimenticare e sul quale, con critica e vigile attenzione, continuare a riflettere[22].
Singolare e per molti aspetti emblematica appare la vicenda che segna i rapporti tra le due più significative figure della storia del movimento cattolico italiano. Romolo Murri e Luigi Sturzo. Due figure che furono espressione di due diversi temperamenti e di due differenti maniere di accostarsi e di affrontare la complessa e spesso scomoda realtà dell'impegno politico e sociale.
Murri e Sturzo erano quasi coetanei. Li divideva poco più di un anno di differenza, essendo nato Murri nell'agosto 1870 e Sturzo nel novembre del 1871. Si erano conosciuti a Roma, alla fine del secolo, nel 1896, in occasione della riunione della Lega antischiavistica, promossa dal marchese Giovanni Alliata, nel corso della quale si parlò anche dell'emergente movimento della democrazia cristiana. Ricordando il momento di quell'incontro Sturzo ha scritto: "Fu Murri a spingermi definitivamente verso la Democrazia cristiana. Da allora vi sono stato fedele."[1] Ma quel primo incontro non segnò ancora l'avvio di un vero rapporto di amicizia e di collaborazione. Ha ricordato ancora Sturzo, che in quella occasione "l'incontro fu un po' freddo", in quanto Murri sapeva che Sturzo era già inserito nell'organizzazione cattolica ufficiale, quindi presupponeva con tutta probabilità che il giovane prete siciliano non fosse proprio uno spirito "ribelle". Ma quando, l'anno successivo, Sturzo tomo a Roma per riprendere gli studi, andò a trovare Murri nella sua abitazione, in piazza della Torretta, iniziando un periodo ricco di intensa collaborazione[2].
Sturzo cominciò a collaborare alle riviste e ai giornali di Murri, soprattutto alla Cultura sociale, sin dal 1898. È del 16 marzo 1898 il suo primo articolo sulla rivista murriana. Del resto gli inviti di Murri per una più intensa collaborazione erano caldi e affettuosi. Il 17 dicembre gli sollecitava "qualche articolo sul movimento e sulle condizioni sociali in Sicilia" e qualche mese dopo, 1' 8 maggio 1899 lo definiva uno dei "migliori propagandisti" della Cultura sociale[3]. Nella collana della Società cattolica italiana di cultura, la casa editrice del movimento d.c. diretta da Murri, Luigi Sturzo pubblicò la gran parte delle sue opere giovanili: nel 1900 l'opuscolo Conservatori cattolici e democratici cristiani, nel 1901 L'organizzazione di classe e le unioni professionali e nel 1906 Sintesi sociali.
Il rapporto di collaborazione e di amicizia tra i due era destinato a rinsaldarsi nei mesi successivi, soprattutto dopo il viaggio compiuto in Sicilia da Murri nell'aprile del 1900. In quella occasione egli fu ospite della famiglia Sturzo a Caltagirone, conobbe il fratello di Luigi, Mario e le sorelle. Stando ad un articolo che pubblicò sull'Osservatore cattolico del 4-5 maggio 1900, Murri rimase profondamente e positivamente colpito dalle attività che Sturzo aveva avviato nella sua città. Scriveva:
Sturzo, dal suo canto, sembra subire l'indubbio fascino di Murri. Quei giorni trascorsi assieme al sacerdote marchigiano lo rinsaldarono nelle sue idee e nell'impegno organizzativo. Scrivendo a Murri, il 4 maggio 1900, Sturzo esprimeva la sua gratitudine: "son dieci giorni che hai lasciato Caltagirone e il tuo ricordo mi sta fìsso nel cuore e quei brevi giorni passati insieme non li dimenticherò". Ed aggiungeva: "Che vuoi? in una vita come la mia tra amarezze e lavori le poche consolazioni che il Signore mi dà mi ritemprano, mi danno più lena, mi inondano il cuore di dolcezza. Una memoria più cara, più cordiale, più sentita, oggi mi lega a te"[5].
Di lì a qualche mese, nell'agosto 1900, Sturzo ricambiò la visita e si recò a Gualdo, ove rimase, ospite di Murri per circa dieci giorni. Alla fine del 1900 Sturzo fu ospite di Murri a Roma, presso l'abitazione del sacerdote marchigiano, per tre mesi[6]. Invitandolo a Roma, così Murri scriveva a Sturzo, alla fine di agosto del 1900: "Ho inteso con piacere la notizia della tua venuta a Roma. Se vuoi potresti anche venire ad abitare con me che, per la promozione d'un prete romano col quale avea preso un appartamento rimango con una stanza, una buona stanza a mezzogiorno, sfitta. Vivresti così al centro della democrazia cristiana"[7].
Nel dicembre 1903 Murri fu di nuovo in Sicilia, ospite di Sturzo a Caltagirone, a testimonianza di rapporti che appaiono molto stretti, nei quali la posizione di Sturzo - ha sottolineato Lorenzo Bedeschi - appare quella di un "discepolo, sia per raccordarsi col suo movimento, sia per migliorare la propria formazione culturale" [8].
Può destare quindi una certa sorpresa la freddezza con cui Murri parla dei suoi rapporti con Sturzo in uno scritto pubblicato nel 1920. Murri non ricorda l'incontro del 1896 rievocato da Sturzo e colloca il primo incontro con il sacerdote siciliano nel 1898 inoltrato. "Aveva fatto - scrive Murri, quasi con distacco - non so che studi in Roma; stava per ripartire per la Sicilia e chiese di vedermi. Non ricordo nulla di quel primo colloquio; ma da esso cominciò una collaborazione assidua e cordiale durata sino alle ultime disgrazie della Democrazia cristiana italiana."
Murri si avventura anche in un ritratto di Sturzo, nel quale si coglie un non troppo nascosto intento di offrire una immagine piuttosto scialba del sacerdote siciliano, sottolineando, tra l'altro quanto i contatti con il movimento d.c. nazionale avessero aiutato Sturzo ad avviare la sua azione sociale e amministrativa in Sicilia. Così Murri descrive Sturzo:
In realtà il molo e le finalità della prima democrazia cristiana sono interpretate da Sturzo in modo diverso che da Murri. Sturzo sembra non credere al potere taumaturgico della democrazia cristiana. Lo si coglie proprio dal primo suo articolo pubblicato sulla Cultura sociale del 16 marzo 1898, con lo pseudonimo Un siciliano. In esso si descrivevano sommariamente le varie attività svolte dai cattolici dell' isola, in particolare le cooperative, i circoli, le casse rurali, sottolineando come "in genere le opere economiche incontrano molto favore presso le popolazioni agricole, sfruttate dagli usurai e dai sistemi di fitto dei latifondi, sistemi che riescono sempre a danno dell'agricoltura e degli agricoltori." Le attività e le organizzazioni economico-sociali avevano la funzione, secondo Sturzo, di "scuotere dall'indifferenza, inerzia e servilismo in cui è caduta la gran massa agricola; destarle il sentimento religioso, che non è che semplicemente assopito; e organizzarla perché possa difendere i diritti religiosi ed economici della grande maggioranza10." Questo articolo, inviato da Sturzo alla Cultura sociale, firmato con lo pseudonimo "Un siciliano", meritò una nota redazionale, molto polemica, scritta, con tutta probabilità dallo stesso Murri. L'articolo era definito "un semplice compendio di notizie", ove mancava "uno studio accurato delle condizioni locali della regione, delle forme di movimento sociale che già vi prosperavano, delle difficoltà che vi incontrano, delle tradizioni storiche e della vita economica degli abitanti, e delle speranze che i cattolici vi hanno per un prossimo avvenire"[11].
Il successivo numero della rivista recava, come risposta allo scritto di Sturzo, un articolo di Ignazio Torregrossa, esponente di primo piano della d.c. palermitana, redatto sotto forma di lettera indirizzata a Murri, nel quale si sottolineava la necessità di un vasto programma impostato su basi scientifiche, abbandonando l'empirismo, che "fa perdere tempo e ritarda maledettamente l'avvenire." Occorreva promuovere "le grandi rivendicazioni in favore del popolo," non portargli "un po' di conforto con la beneficienza o con qualche istruzione non adatta alle esigenze e alle condizioni locali"[12].
Da cosa nasceva la diversa valutazione dei mezzi più idonei per operare in Sicilia? Quali motivi spingevano Sturzo ad operare su un piano limitato, al di fuori dai grandi programmi e dalle ampie prospettive auspicate dal Torregrossa con l'assenso di Murri?
Il richiamo ad un programma "ben definito e scientificamente redatto," cozzava, secondo Sturzo, con la realtà del movimento cattolico siciliano. Replicando con un nuovo articolo sulla Cultura sociale del 1° maggio 1898, scriveva:
Da qui la necessità di una preparazione lenta, assidua, fatta non solo di deliberati di congressi che "restano sulla carta e dopo facili applausi nessuno se ne ricorda." Aggiungeva Sturzo:
Sturzo, d'altro canto, non crede nel potere taumaturgico della democrazia cristiana, non crede che la realizzazione del programma della democrazia crstiana sia di per sé sufficiente a modificare profondamente gli assetti sociali, instaurando una specie di giustizia sociale ispirata ai valori cristiani.
Né Sturzo si lascia coinvolgere dalla problematica religiosa-culturale di Murri. Per lui la democrazia cristiana in Sicilia diventava un mezzo, uno strumento per favorire la soluzione di problemi resi sempre più pesanti dall' aggravarsi della crisi economica e sociale dell'isola. Sturzo che conosceva bene la natura e le prospettive del movimento d.c. nazionale e il pensiero di Murri, ne vede la possibilità di sviluppo in Sicilia quasi esclusivamente in chiave di organizzazione sociale e di impegno a livello amministrativo.
Murri, al contrario, sembra non gradire troppo neanche l'impegno municipalista di Sturzo. Pur riconoscendo a Sturzo una notevole competenza in campo amministrativo, pur giudicando la sua lotta contro lo Stato accentratore, esigenza fondamentale della democrazia, "intesa come educazione del cittadino all'autogoverno", introduce il sospetto che quella tenace battaglia per le autonomie finisse "per coincidere meravigliosamente con l'ostilità sorda e tenace della Chiesa contro lo Stato", creando per la Chiesa "meravigliose opportunità di rientrare nella vita pubblica, impossessandosi di questi istituti, famiglie, scuola, corporazioni, municipio, regione, dei quali si reclama l'autonomia"[16].
Come ha sottolineato Lorenzo Bedeschi, siamo di fronte ad una amicizia contrappuntata "da una concordia-discors in progressivo aumento"[17]. È soprattutto la diversa prospettiva sul futuro e sulla natura del movimento e sui metodi da seguire a suscitare dissenso tra Sturzo e Murri. La prima volta che Sturzo manifesta riserve sulle posizioni assunte dal leader della d.c., è all'indomani dell'importante discorso dal titolo Libertà e cristianesimo, tenuto da Murri a San Marino il 24 agosto 1902, allorché propose un "programma di accordo fra civiltà e Cattolicesimo e di permeazione della vita sociale e dello Stato in nome di esso":
Com'è noto, questo discorso non piacque in Vaticano e costò a Murri una censura ufficiale da parte del cardinale vicario di Roma. Era ormai chiara la profonda frattura che divideva il movimento cattolico italiano, tra i giovani "novatori" e le correnti ancora legate alle istanze del vecchio intransigentismo. Era altresì chiara la posizione del Vaticano, che già con l'enciclica Graves de communi e con le istruzioni del febbraio 1902 aveva inteso limitare il campo d'azione del movimento d.c., tenendolo strettamente ancorato alla tutela ecclesiastica.
Sturzo si rese conto dei rischi che l'impetuosa e ardente prosa murriana poteva arrecare alla crescita e allo sviluppo del movimento d.c. Tanto che, il 24 ottobre 1902, non può far a meno di manifestare a Murri i suoi sentimenti:
Sturzo intravide, quindi, sin dal 1902, quanto il movimento avesse bisogno di un lento e paziente processo di crescita, superando le molte diffidenze che incontrava in campo cattolico e presso le gerarchie ecclesiastiche, per affrancarsi e imboccare la strada dell'autonomia, ma senza strappi violenti che avrebbero messo in crisi l'organizzazione e vanificato i risultati raggiunti. Il temperamento ardente e battagliero di Murri trovava nella prudenza politica di Sturzo un freno, un invito a non forzare i tempi delle battaglie. Non a caso, il 18 luglio 1903 Sturzo manifestò ancora il suo dissenso per il duro attacco sferrato da Murri contro Toniolo, giudicato inopportuno per gli effetti negativi che poteva avere sul movimento e sul suo sviluppo. Sturzo confessa di condividere le riserve di Murri sul professore pisano, ricorda che sulla Cultura sociale aveva definito "troppo felice e romantica la concezione dell' avvenire sociale cristiano di Toniolo. "Ritiene, però, inopportuni i "colpi di testa" di Murri, che, scriveva:
Insomma, Sturzo si muove, di fronte alla democrazia cristiana e alle battaglie murriane, con maggiore cautela, ma anche con maggiore concretezza, con maggiore attenzione all'impegno organizzativo e amministrativo, con una accentuata prospettiva meridionalistica. Sturzo inoltre non si lascia coinvolgere in quell'ansia di adeguamento del clero alla cultura e alla vita moderna, e di rinnovamento sul piano teologico che animava il sacerdote marchigiano. Sturzo, già da questi primi anni di azione politica e sociale, tende a non confondere i due piani dell'impegno politico-sociale con i problemi della riforma e dell'adeguamento della Chiesa alla cultura moderna. Problemi che, secondo Murri, erano sostanzialmente indifferenti a Sturzo, che, a suo avviso, si tenne lontano dalla corrente novatrice che emergeva in quegli anni "non tanto per prudenza, quanto perché non la sentiva. Non ebbe mai bisogno di una revisione critica delle idee generali che il suo stesso movimento supponeva e implicava" [21].
Fu soprattutto a partire dal 1904, dopo lo scioglimento dell'Opera dei congressi che in Sturzo si rafforza la convinzione che la strada intrapresa da Murri non era esente da pesanti rischi, soprattutto nel clima emergente della persecuzione antimodernista, con il suo spirito di crociata repressivo, inquisitorio e persecutorio, che scosse profondamente le coscienze di molti cattolici, e alimentò un clima di diffidenza e di sospetto nel clero, nei seminari, nelle diocesi, impedendo una meditata riflessione su problemi che toccavano i valori e i dogmi della fede, invadendo anche il più ampio terreno della presenza dei cattolici nella società e del loro impegno politico e sociale.
Una prova di questo emergente clima di sospetto e di quanto la posizione di Murri fosse diventata a rischio agli occhi delle gerarchle ecclesiastiche, Sturzo la ebbe nel novembre 1904, quando, ricevuto assieme al fratello Mario in udienza dal papa in Vaticano, Pio X gli chiese: "Da quanto tempo non vede Murri?" Sturzo rispose di aver incontrato Murri la sera precedente in una riunione di amici. La replica del papa fu molto ferma: "Lo so: ma guardatevi da lui; è un superbo e non farà mai del bene[22]." Ricordando questo episodio in tarda età, Sturzo ebbe a confessare di essere rimasto "sbigottito" da quella affermazione del papa. Gli sembrò che "qualcuno gli avesse gettata una pietra in testa." Giudicò "tremenda" quella esperienza, da cui rimase a lungo scosso e turbato[23].
È stato sottolineato che questo episodio stava a significare una sorta di ordine del papa a Sturzo di abbandonare Murri. In realtà, l'ordine di Pio X non sembra trovare esecuzione. Il distacco di Sturzo da Murri avvenne molto più tardi, due anni dopo, nel 1906, in un clima e in una situazione completamente diversi. Ciò non toglie che Sturzo dovette rendersi conto di quanto rischioso fosse, per tutto il movimento di attività amministrative, sociali e politiche sviluppate dai cattolici dalla Rerum novarum in poi, quello scontro in atto tra ambienti novatori e correnti integriste sostenute da una parte della gerarchla ecclesiastica. Meglio ripiegare, allora, in un lavoro di preparazione senza chiasso e senza gesti clamorosi.
Sturzo, dopo la fine dell'Opera dei congressi, giudicò velleitarie le aspirazioni autonomistiche dei suoi vecchi amici democratico cristiani, che non solo non volevano rinunciare al patrimonio di idee e di attività che per alcuni anni aveva risvegliato l'entusiasmo e l'impegno di una intera generazione di cattolici, ma intendevano forzare la mano della gerarchia, avviando un movimento autonomo in contrasto con le indicazioni della Santa sede. Anche Mario Sturzo, dal giugno 1903 vescovo di Piazza Armerina, aveva invitato il fratello alla prudenza. Scrivendogli in quei giorni lo esortò a non prendere decisioni affrettate: "Si corre verso l'abisso. Io te lo dissi e ripeto: ogni movimento secessionista in questo momento è, per lo meno, pregiudizievole. Ci vuole preghiera, silenzio e longanimità"[24].
Sturzo, del resto, aveva già intuito che forzare la mano dell' autorità ecclesiastica poteva compromettere il lavoro di preparazione e di costruzione faticosamente avviato. Inoltre, come ha sottolineato Francesco Traniello "il coagularsi del fronte clerico-moderato richiedeva una nuova fase di attesa, una specie di nuova preparazione nell'astensione" sul piano politico[25]. Occorreva quindi una politica più cauta, senza sfide alla Santa Sede, avendo però chiaro l'obiettivo finale: un partito politico la cui fisionomia Sturzo delineò nel noto discorso pronunciato il 29 dicembre 1905 a Caltagirone, sua città natale, un discorso destinato a segnare una svolta nel pensiero e nella cultura politica dei cattolici italiani.
Obiettivo di Sturzo era il partito, un partito autonomo dalla Chiesa e dalla gerarchia ecclesiastica, con una chiara fisionomia democratica, che doveva maturare dal basso, alimentarsi ai problemi reali e concreti del paese, diventare il risultato di una presa di coscienza e di una maturazione civile e politica dei cattolici.
Il disegno di Sturzo era lontano da integralismi, da confusioni tra politica e religione, con alcune indicazioni programmatiche e proposte politiche ove erano assenti le vecchie diatribe che avevano caratterizzato la crisi del movimento cattolico e la conclusione dell'esperienza democratico cristiana. Nel disegno sturziano i cattolici non respingevano le conquiste e i risultati delle rivoluzioni liberali e dell'unità nazionale, ma si ponevano alla testa di un moto riformatore, a livello istituzionale e sociale, che tenesse conto delle esigenze di una società in sviluppo e in trasformazione.
Si trattò di un discorso che assunse il carattere di manifesto politico, di progetto che, pur avendo ancora bisogno di preparazione e di attesa, andava comunque perseguito, attraverso una presenza attiva dei cattolici nelle amministrazioni comunali, nelle organizzazioni contadine ed operaie, nelle cooperative e nei sindacati, respingendo le collusioni con altre forze politiche e rifiutando le combinazioni elettorali clerico-moderate. In questo discorso c'era molta democrazia cristiana, c'erano molte di quelle indicazioni che Sturzo aveva assorbito dalla lezione murriana.
Ma le strade di Sturzo e di Murri cominciano a separarsi. Il sacerdote di Caltagirone non condivide l'impazienza di Murri, il suo voler bruciare le tappe, la sua febbre, animata da quell'ansia generosa e fervida che accompagnò le sue fertili attività in seno al movimento cattolico italiano.
È ben presente in Sturzo il pericolo di ridurre il movimento democratico cristiano in un piccolo gruppo senza sbocchi e senza prospettive. Era lontana da lui l'idea di dar vita ad un movimento elitario, capace di esprimere idee ma incapace di farsi interprete delle esigenze del paese e di suscitare consensi. Insomma, egli teme la chiesuola. Usa questo termine con frequenza in quei mesi. Scrivendo a Giambattista Valente il 25 maggio 1905 Sturzo affermava:
Gli stessi concetti manifestò a Murri, in una lettera del 7 novembre 1905:
Insomma per Sturzo era necessario abbandonare i disegni autonomistici e le prospettive di una rapida svolta nell'impegno politico dei cattolici, per dedicarsi soprattutto sul piano dell'attività locale, che Sturzo non interpreta come un ripiego o un "adattamento equivoco". "Io credo invece - scriveva a Murri il 19 aprile 1906 - che si fecondi così il movimento democratico di riforma con un cammino lento, qualche volta stanco ma che penetra la vita e che nell'affermazione della nostra esistenza nella vita pubblica ci fa forti anche in alte sfere"[27].
Sturzo, tuttavia, non poteva non riconoscere gli esiti dolorosi dell'ondata antimodernista che veniva a colpire anche significative conquiste del movimento cattolico. Non è un caso che il 10 giugno 1906 egli scriva sulla Croce di Costantino un articolo nel quale dava atto alla grande azione rinnovatrice iniziata da Murri, dolendosi per la "reazione che ha addensato su di lui le nubi di una avversione che non si concepisce se non attraverso atti riflessi e un riandamento storico di fatti consimili." Qualche giorno dopo, il 18 giugno, scrisse a Murri un'ultima lettera, nella quale manifestava il suo disappunto per l'"infausto avvenimento" che segnava la fine della più qualificata rivista murriana, Cultura sociale, manifestando una sorta di sgomento per "una storia - scriveva - che ormai si vive da tre anni e che mai avrei creduto dovesse avere tanta vittima in olocausto." La difficoltà dei tempi spingeva Sturzo a consigliare l'amico a ripiegare su un versante meno esposto, cercando "di avere una posizione morale più nel mondo intellettuale e civile che nell'orbita strettamente ecclesiastica." Lo invitava a conseguire una libera docenza a Roma o a Bologna, per avere "l'occasione di una produzione intellettuale meno ristretta [...], più libera e indipendente," preparando "assai meglio l'avvenire." La conclusione di questa lettera è amara: "II resto della vita del partito comincia a divenirmi estranea e sento che è doloroso. Addio. Un abbraccio lungo e affettuoso"[28].
Sturzo conferma in questa lettera il suo giudizio su Murri, che egli giudica soprattutto grande agitatore di idee, uomo di cultura, incapace però delle mediazioni e delle prudenze necessarie in politica. Le scelte autonomistiche di Murri e la nascita della Lega Democratica nazionale trovarono Sturzo chiaramente dissenziente. Occorreva aspettare, pazientare, preparare il terreno e le coscienze per portare a maturazione lo sbocco del partito.
Com'è noto il disegno sturziano ebbe modo di realizzarsi soltanto all'indomani della prima guerra mondiale, con la nascita, il 18 gennaio 1919, del partito popolare italiano. La nascita del nuovo partito fu favorita non solo dal clima che caratterizzava quel dopoguerra carico di attese, di fermenti e di profonde trasformazioni politiche e sociali, ma anche dalla disponibilità che Sturzo e i suoi amici incontrarono presso Benedetto XV, un pontefice aperto e sensibile al problema dell'acquisizione da parte dei cattolici italiani di una autonoma responsabilità sul piano dell'impegno politico.
Sturzo affidò al suo partito il compito di rompere gli schemi di un sistema politico che non rispondeva più alle esigenze di una nuova realtà nazionale ed europea, aperta al futuro, animata da "nuovo fiotto di vitalità democratica", in antitesi alla concezione panteista dello Stato e della "tirannia burocratica". Il Ppi si faceva interprete, unico tra le forze politiche di quel tormentato dopoguerra, delle esigenze di ampliamento della base sociale dello Stato, proponendo profonde trasformazioni del sistema politico, riaffermando la libertà e autonomia degli enti locali, dal comune alla provincia alla regione e proponendo un ampio decentramento amministrativo e un più organico rapporto tra Paese e Parlamento; auspicando, infine, incisive riforme in materia scolastica, agricola, tributaria, burocratica, ecc.
Con la nascita del partito popolare prende quindi corpo una cultura e un pensiero politico, il popolarismo, che, pur nutrito dei valori e della tradizione del movimento cattolico italiano, con particolare riferimento all'esperienza democratico cristiana, assunse una sua originale e peculiare fisionomia.
Sul piano dei rapporti fra fede e politica, si deve al popolarismo una operazione di grande significato. L'aconfessionalismo proclamato dal partito popolare a tutela della sua autonomia e libertà d'azione sul piano delle scelte politiche, segna il salto di qualità più significativo compiuto dalla cultura politica dei cattolici italiani dall'unità in poi. Con questa scelta venivano superate quelle posizioni ibride ed equivoche che avevano caratterizzato l'esperienza dei cattolici intransigenti, soprattutto nell'Ottocento, quando il confine che doveva separare l'impegno politico del cristiano dal suo rapporto con Dio e con la Chiesa era inesistente e si creavano i presupposti per un integralismo chiuso, che recava pregiudizio non solo alle istanze politiche dei cattolici ma agli stessi valori dalla fede di cui essi erano portatori.
Sturzo intese costruire un "partito di centro, partito di confluenza delle categorie o classi sociali, e quindi, per sua propria essenziale vitalità, basato sulle libertà a carattere democratico [29]." Ciò garantì al partito una base di massa che ne evidenziò la fisionomia popolare, contemperando alcuni freni moderati presenti in altri settori del partito.
Il nuovo partito si segnalava anche per la sua modernità sul piano organizzativo. Nasceva un partito di massa con una direzione centrale dove la figura del segretario politico assumeva peso e rilievo, e con una fitta rete di sezioni e di organismi periferici, intesi come strumenti di partecipazione democratica. Una struttura che nasceva anche dalla preoccupazione di inquadrare la vita del partito e guidare le spontanee iniziative della base.
Cosa restava in questo nuovo partito del movimento della democrazia cristiana e del pensiero di Romolo Murri? Va subito precisato che senza la prima democrazia cristiana e senza Romolo Murri difficilmente sarebbe nato il partito popolare italiano. Non va dimenticato che gli uomini che più di altri seppero essere interpreti genuini del popolarismo provenivano dalla esperienza democratico cristiana: basti ricordare i nomi di Micheli, Bertini, Mauri, Cingolani, Tupini, Donati, Mangano e altri. La stagione democratica cristiana fu momento centrale nella formazione politica e culturale degli uomini che diedero vita al Ppi. Non a caso Romolo Murri scrisse che il Ppi poteva considerarsi un "precipitato storico della D.c. italiana[30], precisando, in altro scritto, che il Ppi "è l'antica democrazia cristiana, ma depauperata e immunizzata attraverso la reazione di Pio X, di ogni germe di modernismo: è il risultato di una selezione che durò dieci anni[31]." In uno dei suoi ultimi scritti, rievocando le sue antiche battaglie politiche, Murri scriveva ancora: "II Ppi [...] si riconnette, sul piano storico, alla d.c., che gli aveva aperto la via, sgombrandola dal vecchio clericalismo oramai ben morto, e preparato e addestrato gli attori principali"[32].
È indubbio, come ha sottolineato Lorenzo Bedeschi, che nei mesi che videro la nascita del Ppi furono in pochi a richiamarsi a quella ascendenza, anzi si evitò accuratamente di evocarla, tanto meno il nome di Murri, la cui vicenda umana e sacerdotale toccava problemi dottrinali che avrebbero potuto suscitare sospetti e difficoltà al nuovo partito. Murri sembrò risentirsi di questo tentativo di disconoscere il ruolo sia pure indiretto che egli e il suo movimento avevano svolto nel maturare una coscienza democratica nel cattolicesimo politico italiano. A Luigi Miranda che aveva negato quella ascendenza, così replicava:
Aggiungeva Murri di aver egli stesso suggerito a parecchi suoi amici "di entrare nel Pp anche perché in questo possono far valere liberamente quel che resta in essi dell'antico spirito e suscitare nuovi dibattiti e contrasti e crisi d'anime e provocare un nuovo passo innanzi o magari una nuova persecuzione del papa venturo"[34].
Ma, qualche anno dopo, nel 1924, affermava che, pur esistendo tra Ppi e democrazia cristiana "una derivazione diretta di uomini e di vicende" esisteva anche "una differenza profonda, essenziale, che non permette confusioni di responsabilità. "Il partito popolare era sorto, infatti, abbandonando "lo spirito di revisione del passato e di laicità religiosa ed autonomia spirituale" che era stata peculiare funzione del modernismo[35].
Dal suo canto, negli anni successivi, Sturzo più volte ribadì la diretta discendenza tra d.c. e partito popolare. Nell'immediato secondo dopoguerra scrisse chiaramente: "il primo fra i cattolici ad alzare la bandiera della democrazia cristiana nel campo social-politico, fu il partito popolare italiano[36]. "Insomma, se è pur vero che al momento della nascita del partito si cercò, per comprensibili timori, di non riaprire una vecchia controversia, che aveva lasciato ferite profonde nella coscienza di molti cattolici, è indubbio che la tradizione democratica cristiana attraversi il pensiero, il programma e la biografia della gran parte dei quadri del partito popolare, a cominciare dal suo leader più prestigioso. Tuttavia, una attenta analisi storica non può non suggerirci una particolare cura nel valutare quanto la indubbia continuità ideale tra d.c. e Ppi vada comunque letta con l'attenzione al diverso contesto storico, alle novità e alle fratture rispetto alla precedente esperienza, al nuovo quadro che vede l'emergere del popolarismo sulla scena politica nazionale.
Ma, se andiamo a leggere il giudizio di Murri sulla natura e sul ruolo del giovane partito, non mancano certamente rilievi critici, a volte pesanti, assieme ad un atteggiamento di grande diffidenza verso l'operazione politica di Luigi Sturzo.
Esaminando il programma del nuovo partito, Murri sottolineava la presenza di molti postulati che non avevano "nulla di specificatamente cattolico." Individuava nel largo programma di decentramento "la volontà di indebolire lo Stato e di aprirsi la via più facile alla penetrazione ne' suoi organi." Ma il giudizio più articolato sul programma popolare è dedicato da Murri alI'VII punto relativo alla "libertà e indipendenza della Chiesa." Per Murri questo articolo del programma evidenziava come il nuovo partito non fosse altro che "l'antica democrazia cristiana, depauperata di ogni tendenza modernistica." La sua critica si sofferma in particolare sul fatto che i popolari richiedessero la libertà della Chiesa e non la libertà religiosa. Scriveva Murri:
Aggiunse Murri che, in sostanza, i popolari "sono per la libertà, cioè per il privilegio, della loro Chiesa, contro la libertà religiosa[37]."
Murri non crede all'autonomia del partito. Secondo il suo giudizio ci si trovava dinanzi ad un partito politico che aveva "dietro di sé e sopra di sé una Chiesa; e una chiesa fortemente e internazionalmente organizzata, gelosa e rivale dello Stato, reclamante un imprescrittibile diritto divino al riconoscimento ufficiale del privilegio[38]." Lo stesso aconfessionalismo del partito appariva, ai suoi occhi una sorta di espediente utilizzato dalla Chiesa per intervenire indirettamente nella vita dello Stato.
Ancora in tarda età Murri dava questo giudizio molto critico del partito popolare, riecheggiando anche certi toni della polemica antisturziana che attraversò il dibattito politico negli anni del fascismo. Secondo Murri il Ppi non poté
È indubbio che l'analisi di Murri mette a fuoco alcuni punti deboli dell'esperienza e della fisionomia di un partito, che dovette fare i conti con condizionamenti e pressioni che indubbiamente ne limitarono notevolmente l'autonomia politica. Tuttavia non possiamo ignorare il fatto che, sia pure favorito dalle aperture di Benedetto XV, la proposta politica di Sturzo riusciva ad affrancare ed emancipare i cattolici, ponendoli su un terreno squisitamente politico, lasciando alle spalle le antiche preoccupazioni ecclesiologiche.
Murri, per molti aspetti, appare ancora prigioniero di queste preoccupazioni, che del resto avevano segnato duramente il suo impegno. Murri appare condizionato, per molti, aspetti, dalla sua esperienza personale, dalle dolorose vicende di un movimento che aveva suscitato attese e speranze e che aveva dovuto ripiegare le armi e disperdersi. L'analisi di Murri, quindi, non riesce ad uscire da una dimensione chiusa nella sua complessa problematica ecclesiologica e religiosa. In realtà, sembra far fatica e capire la natura e la novità del popolarismo. Soprattutto fa fatica a capire la prospettiva laica e civile che Sturzo introduce nell'impegno politico dei cattolici, pur con tutti i limiti e i condizionamenti cui dovette sottostare, con l'obiettivo di tirarli fuori da quella dimensione ibrida che era stata, per molti aspetti la causa del fallimento anche della prima d.c. Il nodo centrale delle preoccupazioni di Murri non è legato al problema di una nuova democrazia da costruire nel clima carico di attese di quel dopoguerra, nel quale si assisteva all'inesorabile declino del vecchio Stato liberale, sotto la spinta delle emergenti forze politiche e dei partiti di massa. La sua attenzione sembra diretta più che ad interpretare la complessa realtà politica, sociale e istituzionale di quel dopoguerra inquieto, ad interrogarsi sulla capacità di "questi nuovi cattolici" di "arricchire di una nuova coscienza etica spirituale lo Stato moderno"[41].
Ed egli non riconosce meriti al partito popolare neanche nella fase più difficile della sua breve esperienza, quando, perdute per strada le scorie moderate e clericali, soggetto a diffidenza e ostilità da parte delle gerarchie ecclesiastiche, si pose di fronte al fascismo con un atteggiamento fermo e coerente, richiamandosi proprio ai valori della antica democrazia cristiana, alla quale uomini come Donati, Ferrari e Sturzo si richiamavano idealmente, per riaffermare l'adesione piena dei popolari a quella tradizione di libertà, di democrazia e di intransigenza.
Murri interpretò invece il fascismo, quasi come erede naturale della d.c., in quanto attuava, come egli scrisse,
Ma al di là di queste interpretazioni, al di là anche delle diverse posizioni, dei diversi
itinerari che hanno contraddistinto le biografie di questi due eccezionali personaggi del
cattolicesimo italiano, non possiamo non cogliere alcune importanti assonanze del loro pensiero.
In un giudizio complessivo, in una lettura storica, vista nei tempi lunghi, non si può disconoscere
a Murri di essere stato tra i primi ad intuire che il movimento sociale cristiano ispirato alla
Rerum novarum doveva trovare nella adesione piena alla democrazia e alla libertà politica
il suo compimento. Murri ebbe il grande merito di superare la visione arretrata della tradizione
del vecchio intransigentismo chiuso e integralista, indicando ai cattolici l'efficacia del metodo
democratico e la necessità di accettare, senza rimpianti per un passato che non ritoma, i risultati
del processo di unificazione nazionale, superando - come si ama dire - lo storico steccato e
gettando le premesse per favorire, in un clima ed in un contesto nuovo, la realizzazione del
progetto politico di Luigi Sturzo.
Note
[1] L. Sturzo, Per la commemorazione di Romolo Murri, in Politica di
questi anni. Consensi e critiche (dal settembre 1946 all'aprile 1948), Zanichelli, Bologna 1954, p. 16.
[2] Cfr. G. De Rosa, Sturzo mi disse, Morcelliana, Brescia 1982, pp. 92-93.
[3] Cfr. le due lettere in Als, busta C 12, c. 144 e C 13, c. 90.
[4] Pram., Nel mezzogiorno. Note di viaggio, "L'Osservatore cattolico", 4-5 maggio 1900.
[5] Cfr. L. Bedeschi, La corrispondenza tra Murri e Sturzo, in Aa.Vv,
Luigi Sturzo nella Storia d'Italia. Storia e letteratura, Roma 1972, II, p. 76. Per i rapporti tra Murri e
Sturzo si veda ora il volume di L. Bedeschi, Murri, Sturzo, De Gasperi. Ricostruzione storica ed epistolario
(1898-1906), ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1984.
[6] Cfr. G. De Rosa, Sturzo mi disse, cit., 93.
[7] Als, fasc. C16, c. 45. Biglietto postale datato 20 agosto 1900. Qualche giorno
dopo, il 28 agosto Murri telegrafava a Sturzo: "Conduci sorella senza timore alloggio religiose sicuro località
incomoda posto casa mia se vuoi" (ivi, c. 64).
[8] L. Bedeschi, Il carteggio Sturzo-Murri e il partito popolare, in Aa.Vv.,
Luigi Sturzo e la democrazia europea, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 222.
[9] R. Murri, Dalla democrazia cristiana al partito popolare italiano,
Battistelli, Firenze 1920, pp. 147-148.
[10] Un Siciliano, Il movimento cattolico in Sicilia, "Cultura sociale",
16 marzo 1898.
[11] Ibidem.
[12] I. Torregrossa, Il movimento cattolico in Sicilia, "Cultura sociale",
1° aprile 1898.
[13] L. Sturzo, Poche altre parole sul movimento cattolico in Sicilia,
"Cultura sociale", 1° maggio 1898.
[14] L. Sturzo, Sintesi sociale, Zanichelli, Bologna 1961, p. 773.
[15] G. De Rosa, Sturzo mi disse, cit., p. 122
[16] R. Murri, Dalla democrazia cristiana al partito popolare italiano, cit., p. 152.
[17] L. Bedeschi, La corrispondenza..., cit., p. 70.
[18] Il testo del discorso in P.G. Grassi, Il discorso di San Marino,
Frama's, Chiaravalle Centrale 1974, pp. 133-155.
[19] Cfr. L. Bedeschi, op. cit., p. 89.
[20] Ivi, p. 94.
[21] R. Murri, Dalla democrazia cristiana al partito popolare italiano, cit., p. 151.
[22] Cfr. L. Sturzo, Scritti inediti, II, a cura di Franco Rizzi, Cinque lune, Roma 1975, p.243.
[23] G. De Rosa, Sturzo mi disse, cit., p. 126.
[24] Cfr. G. De Rosa, Introduzione a L. Sturzo, "La Croce di Costammo",
Storia e letteratura. Roma 1958, p. XXXVIII.
[25] F. Traniello, Città dell'uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d'Italia,
Il Mulino, Bologna 1990, p. 96.
[26] Cfr. G. Valente, Aspetti e momenti dell'azione sociale dei cattolici in
Italia (1892-1926), a cura di F. Malgeri, Cinque lune, Roma 1968, p. 105.
[27] L. Bedeschi, op. cit., p. 107.
[28] Ivi, pp.108-109.
[29] L. Sturzo, II partito popolare italiano, I: (1919-1922). Zanichelli, Bologna, 1956, p. 7.
[30] R. Murri, Democrazia cristiana, modernismo e partito popolare, in Id.,
Stato e partiti politici nel dopoguerra, Ed. di Rinascimento, Roma 1921, pp. 206-215.
Cfr. anche L. Bedeschi, II carteggio Sturzo-Murri..., cit., pp. 221-240, ove parla di due diversi temperamenti e
approcci alla vita politica.
[31] R. Murri, Dalla democrazia cristiana al partito popolare italiano, cit., p. 110.
[32] R. Murri, Democrazia cristiana, Gentile-Cosmopolita, Milano-Roma 1945, pp. 122-123.
[33] R. Murri, Stato e partiti politici nel dopoguerra, cit. p. 208.
[34] Ivi, p. 215.
[35] R. Murri, Un precedente storico del fascismo: la democrazia cristiana,
in Id. Fede e fascismo, Milano 1924, pp. 81-88.
[36] L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, Zanichelli, Bologna 1971, p. 96.
[37] R. Murri, Dalla Democrazia cristiana al pariito popolare italiano, cit., pp. 126-127.
[38] R. Murri, Il nuovo partito cattolico. Un pericolo, "L'idea democratica", 1° febbraio 1919.
[39] R. Murri, Un precedente storico del fascismo: la democrazia cristiana, cit.
[40] R. Murri, Democrazia cristiana, cit. p. 123.
[41] R. Murri, I cattolici e la coscienza etica dello Stato, "II Resto del Carlino", 8 ottobre 1919.
[42] R. Murri, Un precedente storico del fascismo: la democrazia cristiana, cit.
Romolo Murri si iscrisse al Partito radicale agli inizi del 1912. Ma sin dall'aprile 1909. dopo la sua scomunica e la sua prima e unica elezione alla Camera dei deputati, nel collegio di Montegiorgio (Ascoli Piceno), faceva parte, sia pure con un'assoluta libertà di giudizio e di azione, del gruppo parlamentare radicale[1]. Nel volgere di un paio d'anni diventò uno dei dirigenti più autorevoli del partito, tanto che già il 3 febbraio 1914, al termine del VI Congresso nazionale radicale, tenutosi a Roma dal 31 gennaio al 3 febbraio 1914. venne eletto nella direzione centrale, della quale rimase membro fino al novembre 1919. L'iscrizione al Partito radicale, che seguiva di poco la sua adesione alla Massoneria[2], fu una delle cause, e di certo non la meno importante, della lotta risoluta e non sempre corretta condotta contro di lui dall'alta gerarchia ecclesiastica e dal clero della provincia di Ascoli Piceno in occasione delle elezioni politiche dell'ottobre-novembre 1913; lotta che gli costò la rielezione a deputato[3].
Del resto, anche tra i suoi vecchi amici della Democrazia cristiana e della Lega democratica nazionale la decisione di iscriversi al Partito radicale, un partito con una cospicua componente massonica e forti venature anticlericali, e di tagliare i ponti con il movimento dei cattolici autonomi e democratici destò vivissimo disappunto. Molto eloquente è, a tale proposito, una lettera che gli scrisse Eligio Cacciaguerra nel settembre 1914:
Proprio in vista delle elezioni politiche dell'autunno del 1913, e precisamente nel mese di luglio, Murri diede alle stampe un volumetto sulla situazione e le prospettive del radicalismo in Italia[5], in cui delineava, nell'ambito del nuovo contesto politico entro il quale ormai si muoveva, la sua concezione del partito, con particolare riferimento al Partito radicale, e il modo parzialmente nuovo in cui intendeva il concetto di democrazia: una democrazia "laica" nel senso più pieno del termine, non più "cristiana", prova ne sia che nell'introduzione egli affermava, richiamandosi in modo esplicito a Mazzini, che la democrazia era "la stessa coscienza umana in moto per la conquista di sé, delle sue fedi, delle istituzioni sociali" e, quindi, "educazione di sé" e "acquisto del senso del proprio dovere" e più avanti aggiungeva che "la chiesa e il clericalismo" costituivano "la negazione immanente della democrazia". Indicava persino un "programma pratico" che - a suo avviso - lo stato italiano avrebbe dovuto attuare "in materia di laicità":
Nel libretto del 1913, dunque, Murri tracciò le linee essenziali di quel "radicalismo sociale" i cui contenuti e le cui implicazioni politiche esporrà poi in maniera più ampia e approfondita nel corso del 1919.
Secondo l'uomo politico marchigiano, per "giudicare utilmente e saggiamente di un partito", bisognava "riferirsi a tutto il complesso processo della vita sociale di un paese, al cozzo degli interessi sociali, alla dialettica immanente delle grandi idee rinnovatrici", e "vedere se di questa vivente realtà sociale esso si nutre, se per essa mantiene intatte le sue ragioni di essere, parola e strumento efficace di lotta". A questo proposito, metteva in risalto come il Partito radicale fosse "cosa troppo strettamente politica e parlamentare", non essendosi arricchito delle "nuove correnti ideali" che agitavano il paese, non avendo partecipato e non partecipando ai "moti spirituali che affaticarono profondamente e rinnovarono in parte la coscienza italiana", non avendo saputo "veder subito quello che, nel socialismo, era cosa e compito suo", e non osando "erigersi giudice del parlamento e dello Stato nel nome di un diritto nuovo che si andava lentamente facendo". Inoltre, esso era uscito "diminuito" dal sostegno dato a Giolitti, che aveva fruttato bensì due "grandi riforme", come il suffragio universale maschile e il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, ma aveva anche costretto i radicali a "fare parziale sacrificio di sé, per accomodarsi alle esigenze parlamentari e politiche". Al fine di venir fuori dallo stato di "disagio assiduo ed a volte acuto" in cui l'aveva precipitato la "politica giolittiana di equilibrio e di sintesi instabile", al Partito radicale s'imponeva di "prepararsi a pesar sulla bilancia con un più fresco corredo di idealità e più alacre temperamento di lotta e più largo consenso popolare", di "non esaurire nelle opportunità la sua azione" e di "non ucciderla nell'opportunismo" e, infine, di essere senza equivoci un "partito di riforme". Insomma, di fronte "all'avvento di cinque milioni di elettori nuovi alla vita pubblica", doveva intraprendere una "nuova e più vigorosa attività che dirozzi questa massa e la educhi e trovi nelle sue confuse aspirazioni il segreto di un programma di nuova attività sociale e politica", curare di "risalire alla visione della democrazia come di affanno e slancio e programma di un partito di avanguardia", sforzarsi di "frugar la viva anima popolare per sprigionarne, con la luce di un programma, l'entusiasmo vittorioso" e mettere tutto l'impegno per dare una "coscienza" alle "forze sociali" che non avevano ancora la loro "espressione politica", ricollegandosi con "commosso fervore e ricordo" alla tradizione radicale e tendendo a far divenire realtà quell'unità spirituale e sociale del popolo italiano che era stata una delle maggiori aspirazioni di Mazzini. A tale scopo, occorreva anzitutto che i radicali non si lasciassero "imprigionare dalla mutevole situazione parlamentare", che si distaccassero a poco a poco dalla maggioranza che sosteneva il governo presieduto da Giolitti e che creassero le premesse di una politica di alleanza con le forze della sinistra riformista, volta a saldare politicamente i ceti medi e il proletariato. Tale politica, peraltro, era - a giudizio di Murri - nell'ordine naturale delle cose, poiché, da un lato, i repubblicani si differenziavano di fatto dai radicali soltanto per la loro pregiudiziale antimonarchica - che l'uomo politico marchigiano respingeva con fermezza, reputando che il "monarcato" dovesse essere accettato finché non si fosse opposto, a mo' di "ostacolo e barriera", alle "ascensioni democratiche" - e dall'altro,
Di conseguenza, "mettere il socialismo contro il radicalismo" significava "spezzare lo sforzo democratico, impedire al partito radicale la sua essenziale funzione", che era di "raccogliere in un fascio, contro la reazione, le forze di avvenire, per organizzare e preparare una democrazia di governo".
Tra i "compiti di riforma" che Murri assegnava al Partito radicale, il più importante, insieme con l'attuazione di un'assoluta libertà religiosa e della completa laicizzazione dello stato, era quello di democratizzare l'apparato statale, non solo attraverso un ampio decentramento amministrativo e l'incremento e la tutela delle autonomie locali, ma anche, e soprattutto, opponendosi alla crescente ingerenza dell'amministrazione statale centrale e del potere esecutivo nell'attività legislativa. Proponeva, pertanto, di "contenere e limitare la burocrazia con altre forze, organizzazioni ed espressioni d'interessi", che fossero "fuori dello Stato e delle sue presenti delimitazioni amministrative" e potessero "domani, rompendo queste delimitazioni, entrare più efficacemente nel giuoco della vita pubblica e ristabilire l'equilibrio". In altri termini, Murri propugnava un "nuovo assetto delle forze sociali e dei rapporti fra esse e i poteri pubblici", da attuare mediante la graduale trasformazione della "generica e metafisica" rappresentanza politica fondata sui partiti, "organizzazioni di tendenze politiche economicamente e moralmente eterogenee", in "disciplinata e positiva" rappresentanza degli interessi organizzati e delle competenze, aventi come proprio fondamento "la comunità d'interessi professionali, la classe, il sindacato". I sindacati non avrebbero annullato lo stato, non potendo fare a meno di uno "strumento di equilibrio e di sintesi". Ne avrebbero limitato, tuttavia, i compiti, ponendolo dinanzi "non ad innumerevoli atomi dispersi, ma ad un numero non grande di potenti organizzazioni nazionali".
La differenza tra il sindacalismo vagheggiato da Murri e il sindacalismo rivoluzionario era, ovviamente, profonda. Quest'ultimo, difatti, non vedeva che "una classe, di fronte all'affermata e postulata compagine del blocco borghese", e assegnava al sindacato un "compito di resistenza e di lotta" che rinviava a "nebulose palingenesi remote" e dal quale mal si sarebbe tratto un "qualsiasi criterio di politica positiva e realistica e di riorganizzazione sociale". Il "moto sindacale" teorizzato dall'uomo politico marchigiano, viceversa, si estendeva a tutte le classi e riguardava, perciò, non "i soli operai salariati, ma le più varie professioni ed uffici sociali". Inoltre, mirava ad avviare un "processo di reintegrazione organica della società", ricostituendo le "funzioni sociali in unità corporative", ricercando "l'armonia e l'equilibrio tra di queste", studiando di "dominare i moti popolari e dirigerli a fini positivi, verso una più alta giustizia", e anche tutelando i "supremi interessi dei consumatori contro le coalizioni e le possibili esorbitanze dei singoli gruppi di produttori".
Ma lo stato - ammoniva Murri - non poteva "accettare e secondare il moto dei sindacati" se, contemporaneamente, "non li domini con una visione più alta di equilibrio e di armonia" e se "non cerchi e non trovi nel campo sociale delle forze con le quali sia capace di fronteggiarli ed imporre ad essi i loro limiti". Le vie che gli si aprivano davanti erano due: "appoggiarsi sui ceti medi" e "farsi interprete degli interessi generali dei consumatori".
I ceti medi, infatti, "per la loro stessa struttura sociale, per la molteplicità e complessità dei servizi che rendono, per la iniziativa individuale che richiedono", erano "i meno capaci di organizzazione rigidamente sindacale". Anche essi, però, sentivano la necessità "di solidarietà e di organizzazione", sia pure "di una organizzazione varia, molteplice, plastica ed adattabile", e, per giunta, erano, tra i vari strati sociali, quelli maggiormente minacciati "dalle esorbitanze e dal prepotere dei sindacati". Lo stato, dunque, doveva trarre profitto da questa situazione e far leva sulla piccola e media borghesia appunto per contenere i sindacati "nei giusti limiti" e altresì per "circondarsi di una opinione pubblica la quale lo accompagni e lo assista nel suo difficile incarico".
Sempre nel tentativo di circoscrivere, nel rispetto di una "più vasta visione degli interessi sociali", la forza e il potere dei sindacati, che erano sindacati di produttori, non si poteva rinunciare a difendere in modo adeguato le esigenze della gran massa dei consumatori. La qual cosa voleva dire soprattutto, per un verso, rinnovare "gradatamente e prudentemente, ma sostanzialmente", il sistema tributario italiano con l'introduzione dell'imposta progressiva sul reddito e lo sgravio dei generi di più largo consumo, e, per l'altro verso, ridurre in maniera graduale il dazio doganale d'entrata sul grano, fino a giungere alla sua abolizione.
Oltre a ciò, nel programma di un partito che fosse realmente progressista - concludeva Murri - non potevano mancare altre fondamentali riforme politico-sociali: il riconoscimento della "pienezza della capacità giuridica della donna", l'"avviamento alla sua capacità politica", l'"assicurazione obbligatoria della vecchiaia e contro le malattie", l'"assistenza dell'infanzia e dei minorenni abbandonati", il contratto collettivo di lavoro, la tutela della piccola proprietà rurale[6].
In ciò che Murri sosteneva nel volumetto del 1913, in verità, non vi erano molte differenze, per lo meno nella sostanza, rispetto a quanto aveva propugnato nel periodo della Democrazia cristiana e meno ancora in confronto a ciò che aveva sostenuto durante l'esperienza della Lega democratica nazionale. Non a caso, d'altronde, nel suo libretto egli sottolineava che "il modernismo religioso, nel suo aspetto politico e nelle sue applicazioni alla politica delle fedi e delle Chiese, era ed è il più autentico radicalismo". Insomma, per lui il modernismo e il radicalismo erano quasi la medesima cosa. Tuttavia, oltre alla concezione profondamente laica e anticlericale che mostrava di avere della democrazia, erano presenti nel suo scritto almeno due sostanziali novità: la fondamentale importanza attribuita alle organizzazioni sindacali e professionali come cerniera fra il proletariato e la piccola e media borghesia dell'impiego e delle libere professioni e, più ingenerale, come intermediarie fra la società civile e lo stato; e l'attenzione non occasionale rivolta alla questione emergente dei ceti medi, nei quali vedeva addirittura il ceto politico dirigente per eccellenza. A quest'ultimo proposito, mette conto di rilevare subito che egli valutava con eccessiva benevolenza la maturità politica della piccola e media borghesia italiana presa nel suo insieme, ravvisando nei ceti medi nostrani uno spirito progressista che essi, considerati nel loro complesso, in realtà non possedevano[7].
Idee molto simili a quelle espresse da Murri nel 1913 erano state enunciate un anno prima anche da un altro radicale, Nino Massimo Fovel, leader della corrente di estrema sinistra del Partito radicale, quella "radico-sociale"[8]. Pur se l'uomo politico marchigiano non aderì mai al gruppo radico-sociale, l'affinità delle sue idee politiche con quelle di Fovel consentì ai due di instaurare sin dall'agosto 1913 una proficua intesa, volta a strappare la guida del partito dalle mani degli elementi moderati e filogiolittiani[9]. Dall'intesa tra Murri e Fovel nacque l'ordine del giorno che il primo presentò al VI Congresso nazionale radicale[10]. L'ordine del giorno, approvato a maggioranza, stabiliva l'immediata uscita tanto dei ministri e dei sottosegretari radicali dalla compagine governativa, quanto dei deputati del gruppo radicale dall'eterogenea maggioranza parlamentare che sosteneva il quarto ministero Giolitti, e fu la causa non ultima delle dimissioni rassegnate dallo statista di Dronero il 10 marzo 1914[11].
I concetti esposti nell'estate del 1913 furono ripresi e sviluppati da Murri al termine della guerra. A spingerlo a riproporre con maggior vigore e con un accresciuto sforzo di approfondimento le idee già espresse poco meno di sei anni prima furono, oltre alla crisi profonda in cui dallo scoppio della guerra versava il Partito radicale, soprattutto tre fatti: la nascita, nel gennaio 1919, del Partito popolare, il primo partito italiano d'ispirazione cattolica, che per il suo interclassismo e il suo aconfessionalismo rappresentava, sotto l'aspetto elettorale, un pericoloso concorrente per il Partito radicale e per tutta la sinistra democratica[12]; il radicalizzarsi dello scontro di classe; e il manifestarsi in tutta la sua preoccupante gravita del problema dei ceti medi[13].
Facendosi per l'appunto interprete e portavoce del malcontento dei ceti medi e soprattutto delle tendenze innovatrici che tra la primavera e l'autunno del 1919 ancora predominavano, ancorché con forme in genere piuttosto confuse, in larghi settori della piccola e media borghesia italiana, specie dell'Italia settentrionale e centrale, Murri rilanciò, prima in un appello al paese redatto alla fine di marzo del 1919 per incarico del comitato direttivo radicale[14] e poi in due ampi articoli apparsi fra i primi di maggio e gli inizi di giugno di quello stesso anno nella Rivista di Milano[15], la proposta di adeguare il radicalismo ai mutamenti intervenuti nella struttura della società italiana, dandogli contenuti spiccatamente "sociali". così da farne il punto d'incontro e di saldatura tra il proletariato e i ceti medi. I due articoli della primavera 1919 furono rifusi poi, con diverse aggiunte e alcune leggere modificazioni, in un piccolo volume pubblicato nelle prime settimane del 1920[16], nel quale, però, l'accentuazione degli aspetti metafisici e morali nuoceva parecchio all'efficacia del ragionamento dell'uomo politico marchigiano e alla credibilità delle sue proposte politiche.
Nel manifesto approvato il 30 marzo dalla direzione centrale radicale si ricordava come i partiti della democrazia, e in particolare il Partito radicale, avessero visto nella guerra "il principio di un ordine nuovo di libertà e di giustizia". Per questa ragione, conseguita la vittoria, si erano diffusi in Italia, come in tutti i paesi vincitori dell'Europa, "un senso nuovo di cittadinanza umana, un desiderio fervido di giustizia, un'ansia di ricostruzione sociale che chiede soddisfacimento". Sennonché, il parlamento e il governo italiani, "sopraffatti dalla pace, come furono sopraffatti dalla guerra", indugiavano oltremisura ad "andare incontro al popolo aspettante ed iniziare vigorosamente la nuova politica sociale" e la borghesia nel suo insieme, "incerta e smarrita", non comprendeva che, se non avesse rinunciato a "privilegi insostenibili" e provveduto a "rinunzie tempestive", sarebbe stata costretta a una "tacita abdicazione" a favore del "tumulto dal basso" e della "sterile violenza". Viceversa, occorreva mettere tutto l'impegno possibile per "difendere lo Stato, l'Italia e i frutti della guerra vittoriosa" e per impedire, di riflesso, il rovesciamento della borghesia da parte del proletariato. E il modo migliore per farlo era quello di garantire subito "una più larga partecipazione delle classi lavoratrici al potere", attuando in breve spazio di tempo "un rivolgimento rinnovatore degli istituti pubblici - e prima del Parlamento - nella legalità". A tale intento, bisognava che tutti avessero ben chiaro che "la legalità senza sostanziali riforme" sarebbe stata "una formula vuota", destinata a crollare "al primo urto", così come "la rivoluzione senza legalità, la violenza irresponsabile, la minacciata dittatura di una classe o dei suoi gerenti" avrebbe finito col "trarre in rovina, con lo Stato e l'industria, le stesse conquiste che le classi lavoratrici hanno già raggiunto, provocando l'arresto della produzione e la miseria e sottraendo l'Italia in crisi dalla concorrenza, già aperta, per le conquiste dei mercati mondiali". I radicali volevano, dunque - continuava l'appello di Murri - "la rinnovazione piena, profonda, radicale dello Stato, senza strappi violenti"; e a questo fine non poteva spaventarli nessuna novità, purché tesa a soddisfare "gli interessi di quelli che più diedero e meno hanno in forme di diritto". Il propugnare, prima di ogni altra cosa, "la giusta partecipazione alla vita dello Stato da parte delle classi lavoratrici", a cominciare dal pieno riconoscimento giuridico dei sindacati operai, significava arricchire di nuovi contenuti il radicalismo, trasformandolo da radicalismo meramente politico in "radicalismo sociale", nel quale non potevano non convenire, gettando le basi per un'unione dei partiti intermedi, tutti quei "socialisti che deprecano la violenza senza metodo e senza norma" e quei "democratici per i quali la democrazia è vita e processo e sviluppo". Tutti costoro avrebbero mostrato così, "coi fatti", che "la rivoluzione immanente nella grande guerra" poteva e doveva essere "non naufragio dello Stato nel tumulto di una violenza dissolvitrice, ma ascensione delle classi lavoratrici alla conquista dello Stato, e pace sociale, nel diritto, per tutte le funzioni produttrici"[17].
Ricollegandosi ai concetti enunciati nell'appello al paese della fìne di marzo, nei due articoli pubblicati di lì a poco nella Rivista di Milano Murri faceva osservare che, dopo la borghesia, erano le classi lavoratrici subalterne ad affacciarsi "alla storia" e a chiedere legittimamente "i loro diritti politici". Il rispetto del principio di libertà, per il quale aveva combattuto e vinto, avrebbe imposto alla classe borghese di "farsi incontro ai lavoratori, rivedendo e criticando la sua propria ideologia, cercando di formare nella classe nuova una aristocrazia che entrasse con essa nella comunione di quel patrimonio di cultura e di istituti sociali liberi che assicurano lo svolgimento normale del diritto", in modo che la conquista del potere da parte del proletariato avvenisse "sulla linea di un normale sviluppo di tutta la società". Sennonché, "le vicende, le lentezze e gli smarrimenti della conquista della democrazia da parte delle stesse classi intellettuali e borghesi" avevano rallentato non poco "questo processo democratico", che solo la guerra aveva "accelerato e precipitato". A guidarlo e a portarlo finalmente a compimento non poteva essere il liberalismo, che era diventato ormai "dottrina astratta, formula vuota" e che, per di più, in Italia aveva coperto "un regime che nel fatto si reggeva sugli interventi autoritari e sulla corruzione". Né questo compito poteva essere assolto dal radicalismo tradizionale, che sin dai primi anni del secolo aveva avallato l'equivoco "riformismo" e il pernicioso "elettoralismo" di Giolitti, vale a dire una politica in cui le riforme erano "non l'organico svolgimento di uno spirito nuovo, di un programma democratico, ma un surrogato e un espediente", poiché "si continuava a temere e ad avversare, e quindi ad ostacolare e ritardare, l'ordinato ascendere dei ceti operai verso la coscienza e l'autonomia civile" e, in pari tempo, "si trattava a volta a volta con i piccoli divenuti elettoralmente forti per tacitarli o associarli alla oligarchia parlamentare-democratica". E meno che meno dal socialismo ufficiale, al cui interno si stavano imponendo ogni giorno di più tendenze rivoluzionarie e antidemocratiche che anelavano alla dittatura del proletariato e respingevano, pertanto, il principio, "assai più degno ed eternamente valido", secondo cui "gradualmente il proletariato, sfruttando volta a volta le opportunità di coincidenza di interessi con frazioni borghesi e crescendo di intima forza, poteva conquistare ad un tempo le condizioni preparatorie all'esercizio del potere e il potere medesimo". Murri, tuttavia, era del parere che il bolscevismo da sé solo non costituisse un pericolo immediato, giacché lo stato italiano era, senza dubbio, debole negli uomini che lo rappresentavano e mancava, per giunta, di "un preciso programma", ma aveva pur sempre dietro di sé "la grande forza di disciplina e di unità mostrata dal paese durante la guerra e specialmente dopo Caporetto". Il pericolo vero e più vicino stava altrove: nella "rinnovata coscienza civile" creata dalla guerra, la quale implicava "un nuovo Stato", era cioè "elemento ideale e volitivo di un nuovo assetto politico, amministrativo, sociale". Essa era "condanna del passato" ed "esigenza molteplice e tumultuante, non di sparse riforme disorganiche, non di transazioni particolaristiche con i singoli gruppi [...] ma di tutto un diverso indirizzo statale". Perciò, l'avvenire immediato del paese dipendeva "dalla possibilità che queste nuove e più consapevoli forze politiche" avevano" di conquistare ordinatamente lo Stato, di attuare, non delle riforme, ma la grande riforma, rovesciando e sostituendo in gran parte, con elementi nuovi, gli uomini che della debolezza e della inettitudine dei poteri pubblici in questi ultimi tempi sono i principali responsabili". Se "vie nuove" non fossero state aperte a "queste energie nuove", una parte sarebbe passata "per disperazione" al bolscevismo e l'altra parte avrebbe incrociato le braccia. E sarebbe stata la fine dello stato democratico. Soltanto il "radicalismo sociale", dunque, poteva "salvare lo Stato e la nazione, incanalando la nuova coscienza italiana nelle forme e nelle vie del diritto", poiché era l'unica dottrina politica che sorgeva dal "disposarsi della esigenza di novità sociale alla coscienza del diritto, come forma immanente dei rapporti umani", e che mirava ad "estendere a tutto il popolo l'autonomia e la sovranità che si conquistano partecipando effettivamente, con consapevolezza matura, alla attività dello Stato". In questo campo due riforme apparivano all'uomo politico marchigiano "pregiudiziali e fondamentali". L'una era l'abbandono del collegio uninominale, il quale aveva rappresentato lo strumento di cui si era valsa "l'oligarchia parlamentare per mantenersi al potere corrompendo, falsando la pubblica designazione". L'altra era la "costituzione di una gerarchia di autonomie", fondata, da un lato, sui sindacati professionali e, dall'altro, sul decentramento comunale e regionale. La "sovranità popolare" - argomentava Murri -sarebbe stata "sempre e necessariamente una menzogna" fino a quando il "popolo" fosse stato "una massa caotica di individui isolati" posta dinanzi "ai problemi formidabili del potere centrale, affinché decida e scelga". Autonomia significava, invece, "possesso del proprio mondo e dei mezzi per costruirlo" e ogni cittadino, in una vera democrazia, non poteva non farsi "giudice ed arbitro di questo suo mondo".
Tutto ciò costituiva "il lato formale" del radicalismo sociale. Quest'ultimo, però, doveva avere anche "un contenuto proprio", dato che le classi subalterne aspiravano al potere non "per la bellezza e la vanità del potere", ma per compiere "mutamenti nella struttura giuridico-economica della società" secondo i propri interessi. In proposito, i socialsti volevano il collettivismo e, quindi, l'abolizione della proprietà privata, la socializzazione dei mezzi di lavoro, la dittatura del proletariaro, la soppressione delle classi. Ma - a parere di Murri - la società ventura ben difficilmente, sarebbe stata quella prospettata e desiderata dai socialisti: essa si avviava ad essere, piuttosto, una "società giuridica dei produttori". Ad ogni buono conto, l'ex deputato radicale marchigiano conveniva con i socialisti che questa rinnovata società dovesse fondarsi sul principio che "solo il lavoro dà diritto alla partecipazione dei beni sociali" e che "chi non lavora, non concorre a conservare ed accrescere la somma dei beni sociali [...] è un parassita". In questo senso - notava Murri - "parliamo di radicalismo sociale e siamo socialisti", sia pure "di un socialismo nostro", differente dal socialismo ufficiale perché "non [...] classista, non proletario, benché riguardi più direttamente il proletariato, non, di per sé, anticapitalista ed antiborghese" e, perciò, "tanto più veramente sociale, espressione di una tendenza etica di tutta quanta la società". Di conseguenza, la "società socialista" vagheggiata da Murri aveva il pregio di rendere giustizia al proletariato senza uscire "dalla rotta della logica democratica borghese", senza rinnegare la borghesia e senza chiudersi "nelle passioni e negli esclusivismi di una classe sociale". Per questi motivi l'uomo politico marchigiano propugnava non già la soppressione della proprietà privata, che avrebbe avuto l'unico effetto di togliere ai produttori "lo stimolo efficacissimo dell'utilità propria e de' proprii eredi immediati", senza accrescere in alcun modo "il benessere de' nullatenenti", bensì l'abolizione di quelle "forme di proprietà e di reddito" le quali non fossero legittimate da "una funzione sociale utile", così da spianare alle classi lavoratrici "la via alla proprietà ed alla diretta gestione degli strumenti del lavoro": "ogni forma di proprietà" - ammoniva - doveva essere giustificata da "una utilità sociale presente" e da "un contributo effettivo alla produzione di beni sociali". Murri non tralasciava di indicare i provvedimenti a suo modo di vedere più adatti a far sì che scomparissero quelle forme di proprietà che non rispondevano ad "alcuna funzione sociale utile" o addirittura causavano gravi disuguaglianze sociali: soppressione di quelle forme di proprietà privata del suolo, "residui del diritto e della società feudale", nelle quali il proprietario non faceva che percepire un reddito dalle sue terre, senza occuparsene minimamente; limitazione del diritto di acquisto e possesso della terra; restrizione del diritto di successione; nazionalizzazione delle acque e di tutte le ricchezze del sottosuolo; socializzazione delle aree urbane "fabbricate e fabbricabili", salvo quelle su cui il proprietario avesse edificato la propria abitazione; riduzione e "diversa amministrazione" dei beni accumulati dalle opere pie e dagli enti ecclesiastici; introduzione di forme di socializzazione nella proprietà industriale, come la partecipazione azionaria dello stato e dei lavoratori, la limitazione dei dividendi mediante l'aumento delle partecipazioni statali, la concessione di agevolazioni alle cooperative di produzione; pieno riconoscimento giuridico dei sindacati professionali. Egli non si nascondeva che le sue proposte sarebbero apparse "audaci a taluni", ma invitava questi ipotetici censori a chiedersi se l'Italia non si trovasse "in un momento storico nel quale l'audacia è un dovere della più elementare prudenza, quando non si può conservare che rinnovando".
Il "problema della gerarchia delle autonomie" fu uno dei problemi che in quei mesi Murri mostrò di avere più a cuore, tant'è vero che su di esso ritornò in modo più diffuso nel mese di novembre. Egli spiegò che "l'autonomia" rappresentava l'essenza di qualsiasi regime realmente democratico, giacché era "effettivo esercizio di sovranità, disciplina liberamente voluta e accettata", e solo attraverso l'autonomia il "lavoratore" acquistava "la consapevolezza dell'interdipendenza sociale, della molteplicità di funzioni nelle quali si distribuisce l'attività nazionale e della sintesi o unità necessaria". Onde "una democrazia a cui tutti partecipino veracemente, che non nasconda sotto le parvenze rappresentative l'egemonia di una classe privilegiata e la servitù di un'altra, la più numerosa", non poteva non avere come base "le autonomie locali e l'organizzazione sindacale". In Italia, invece, come in tutte "le democrazie occidentali costituitesi sul tipo della Francia repubblicana", si era creato "un tipo astratto di cittadino avulso dalla realtà Pratica dei suoi rapporti sociali, fatto un numero nello Stato", che "nella infinita molteplicità dei dispersi" era divenuto "per necessità accentratore ed autoritario". Pertanto, occorreva
Le proposte formulate nei due articoli pubblicati nella Rivista di Milano furono ripetute da Murri anche nella relazione introduttiva da lui tenuta per conto della direzione centrale del Partito radicale al convegno nazionale radicale di Roma dal 27-28 luglio 1919. Egli notò come, assicurata ormai all'Italia la "democrazia politica", di cui l'imminente riforma in senso proporzionale del sistema elettorale costituiva l'ultimo tassello, si dovesse compiere un passo in avanti, verso la "democrazia sociale", attuando una riforma "dell'assetto dello Stato e del diritto di proprietà". Sotto il primo profilo, s'imponeva, al fine di avvicinare i cittadini allo stato, oltre alla rappresentanza proporzionale e allo scrutinio di lista, "uno stabile assetto delle autonomie, sulla duplice base dei sindacati professionali e delle regioni", e, perciò, fondato sul riconoscimento giuridico dei sindacati professionali, che doveva culminare nella creazione del "Senato professionale", ossia in una camera non di rappresentanza politica, ma di rappresentanza delle competenze e degli interessi professionali, e su un ampio decentramento politico e amministrativo. Riguardo al secondo aspetto, era ormai tempo che "il diritto assoluto di proprietà" cedesse il posto "al criterio economico ed etico, ad un tempo, della funzione sociale della proprietà privata". Pertanto, a quest'ultima dovevano essere "ricordati i doveri, imposti limiti nuovi, adottate forme associative" in grado di renderla "il più agile e proficua avvicinandola al lavoro". A tale scopo, Murri insisteva sulla necessità, da un lato, di abolire il latifondo e la proprietà privata del sottosuolo e delle acque e di limitare la proprietà ecclesiastica e il diritto di successione e, dall'altro, di introdurre talune forme di socializzazione della proprietà terriera e industriale, attraverso la partecipazione dello stato e degli operai alla direzione e al capitale azionario delle aziende, la limitazione dei profitti industriali mediante l'aumento delle partecipazioni statali e, infine, lo sviluppo della cooperazione, sino a giungere alla gestione diretta da parte dello stato di talune industrie e di taluni servizi pubblici (come, per esempio, le comunicazioni) di maggiore importanza sociale[19].
Idee affini a quelle agitate dall'uomo politico marchigiano nel corso del 1919 vennero propugnate tra la fine del 1918 e la metà del 1920 pure da altri rappresentanti dell'ala sinistra del Partito radicale (Meuccio Ruini, Eucardio Momigliano, Alberto La Pegna, Vincenzo Giuffrida, Mario Beretta e Mario Abbiate)[20]. Si trattava, senza dubbio, di idee coraggiose e, per molti aspetti, originali, ma esse non avevano in sé nulla che desse loro un carattere rivoluzionario. Dalle proposte formulate nel primo dopoguerra da Murri e dagli altri esponenti della sinistra radicale emerge, infatti, un sagace disegno di sostanziale conservazione politica mediante un profondo rinnovamento sociale. La loro logica, insomma, era quella di cambiare molto per salvare gli elementi portanti dell'assetto politico, ma anche sociale, instaurato in Italia dopo il 1860: vale a dire la monarchia, le istituzioni democratiche borghesi e, sebbene con alcune limitazioni, la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio. A ben guardare, si può dire che il loro fine essenziale fosse quello di dar vita a una sorta di patto sociale che, attraverso la collaborazione tra le diverse classi, mettesse in atto una rinnovata e più efficace forma di controllo politico del proletariato.
Comunque sia, non erano idee tali da poter incontrare il favore di un partito, come quello radicale, i cui maggiori rappresentanti si mostravano da alcuni anni viepiù diffidenti, e talvolta persino timorosi, nei riguardi di tutto ciò che implicava innovazioni troppo profonde. Perciò, esse furono accolte con velato scetticismo o con ostentata indifferenza dalla grande maggioranza dei parlamentari radicali e da molti dei principali dirigenti del partito. Questa, insieme con la discordia, i personalismi e i giochi clientelari che si erano manifestati tra le file radicali anche durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del novembre 1919 e che avevano dimostrato una volta di più la grandissima difficoltà, se non proprio l'impossibilità, di fare del Partito radicale un partito ben organizzato, disciplinato e attento alle profonde modificazioni sociali in atto nel paese, fu la ragione fondamentale per la quale l'11 novembre 1919, cinque giorni prima della consultazione elettorale, Murri, deluso e sfiduciato, si dimise dalla direzione centrale radicale. Giudicando ormai "finito" il Partito radicale, le dimissioni dal comitato direttivo radicale segnarono l'inizio del suo graduale allontanamento dal partito. Tra la fine della primavera e il principio dell'estate del 1920, intatti, l'uomo politico marchigiano prese altresì la risoluzione di restituire la tessera dell'Associazione radicale romana, la sezione radicale a cui era iscritto, e di uscire, di conseguenza, dal partito[21], avendo verificato "l'inanità del tentativo fatto di condurlo a prendere, con rinnovata coscienza del suo ufficio storico, una vigorosa iniziativa di ricostruzione politica e sociale"[22] ed essendo ormai "disperato di vedervi non dico prevalere, ma trovar simpatie e seguito" la "concezione ideale" che egli aveva elaborato e che era una "concezione politica e morale non grettamente utilitaria e materialistica"[23].
Alla fine di dicembre del 1919, quando il suo progressivo distacco dal Partito radicale era già in atto, Murri pubblicò un importante articolo in cui, ad evitare che sorgessero equivoci, spiegava quale significato bisognava dare al concetto di "socializzazione", intorno al quale ruotava tutta la sua concezione del "radicalismo sociale" e, quindi, la sua concezione della democrazia. Egli lasciava intendere con chiarezza che l'idea di "socializzazione" non si discostava dalla tradizionale logica borghese, fondata sulla sostanziale difesa della proprietà privata. Per questo motivo essa costituiva qualcosa di molto diverso dal concetto di "comunismo". In altre parole, "socializzare" non poteva significare, "se non subordinatamente, ed in casi particolari, togliere qualche cosa all'individuo per attribuirla alla società", ossia per darla "alla collettività dei consociati in una Nazione". Ciò avrebbe presupposto "una distinzione, un contrasto" fra due termini, "individuo e società", che "nel pensiero contemporaneo" non poteva essere "ammesso". Infatti, "le cose, gli oggetti, i beni estemi, e gli individui stessi" erano "oggetti concreti, definiti, esistenti in sé", che si poteva "lasciar stare o modificare o distruggere, ma in nessun caso socializzare, cioè fare di molti uno". Si poteva parlare di "socializzare una fabbrica o una casa o un terreno coltivabile", ma quella fabbrica avrebbe avuto bisogno sempre di "un determinato numero di persone, con esatta distribuzione fra di esse del lavoro", che la facessero produrre, così come la casa avrebbe avuto bisogno di "dati abitatori" e la terra di "dati coltivatori". E in questo "rapporto diretto e immediato fra cose e determinati individui che le applicano a determinati usi" - continuava Murri - si risolveva, "per necessità, qualsiasi forma di economia individualistica o associata o socializzata". In realtà, "sociale" era sempre qualcosa che riguardava l'uomo come individuo: "una idea o una fede comune, un ordinamento politico o giuridico, una volontà che s'impone, un sistema di collaborazione nel produrre e di distribuzione dei prodotti". Pertanto, "socializzare" non poteva significare "togliere a un individuo e dare a una società che, fuori degli individui non esiste", ma voleva dire "dare a un individuo che per educazione o per fede o per altra forza ideale" fosse "egli stesso sociale in una data misura", la quale, "con lo svolgersi della società", diveniva "sempre più alta". Per dirla in breve, significava "esigere dall'individuo, nell'uso di quello che gli si dà, il riconoscimento di un dovere, il compimento di una funzione sociale". A suo giudizio, dunque, "socializzare" era
E se il termine "socialismo" - affermava l'uomo politico marchigiano - avesse indicato appunto - "come avrebbe potuto essere, se dal principio la parola non fosse stata usata per indicare talune particolari concezioni" - questo "immanente processo storico di educazione dell'individuo alla universalità e al dovere morale che la esprime, e di socializzazione degli sforzi e degli istituti", tutti coloro che, in un modo o nell'altro, svolgevano una "funzione sociale utile" avrebbero potuto essere chiamati "socialisti" e "parassiti", per converso, tutti gli altri, ossia quelli che fruivano di un diritto al quale non corrispondeva nessun dovere e quelli che prelevavano "parte di una ricchezza" che non avevano "in nessun modo contribuito a produrre". La "portata politica" di quanto era venuto dicendo era - spiegava Murri - che in taluni casi, come, ad esempio, per i grandi mezzi di comunicazione e di trasporto, "socializzare" poteva voler dire "attribuire la proprietà di essi a tutta la Nazione, alla grande comunità nazionale", proprio come nel caso del comunismo. Era "pericoloso", però, fare di questi casi "un tipo unico", poiché in molti altri casi una "opportuna socializzazione" poteva "non escludere l'attribuzione di certi beni, terre, fabbriche o altro a più ristrette cerchie d'individui associati", creando "nuove forme di comproprietà, di partecipazione, di azienda associata e via dicendo". Essere "socializzatori" - egli concludeva - non significava essere "comunisti"; ma poteva voler dire, in molti casi, anzi, nella maggior parte dei casi, "esattamente l'opposto"[24].
Alla decisione di recidere i residui legami con il Partito radicale molto contribuì anche il fatto che tra la primavera e l'estate del 1920 la Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, ispirata da Gaetano Salvemini, e il gruppo raccolto attorno al quindicinale romano Volontà (del quale faceva parte pure Murri e che era formato, al pari della lega salveminiana, da esponenti dell'ala sinistra del movimento degli ex combattenti) tentarono di dar vita al "Partito del rinnovamento", che, nei disegni dei suoi promotori, avrebbe dovuto essere l'interprete e il portavoce delle aspirazioni di quanti avevano combattuto nelle trincee a una profonda innovazione politica, sociale e morale del paese[25]. Dopo l'ulteriore delusione provata per la morte prematura, negli ultimi giorni di agosto del 1920, del Partito del rinnovamento, Murri finì, nell'estate 1921, addirittura con l'avvicinarsi, pur se in maniera graduale, al fascismo, del quale - com'è stato notato - non riuscì a comprendere "gli aspetti di classe e i rapporti economici rimanendo piuttosto attratto dai motivi della 'romanità' e dalla ripresa di un rinnovato slancio spirituale della nazione", sicché esso "gli appariva, a torto o a ragione, come la manifestazione tangibile di una nuova presenza collettiva nella vita politica del paese mentre si spegnevano le ultime luci del primo conflitto mondiale"[26].
Il Murri con cui ho il piacere di intrattenervi in questa breve conversazione è certo poco conosciuto: un Murri che è stato lasciato a lungo in ombra e trascurato. Mi riferisco al periodo fascista.
Per lungo tempo si è ritenuto che colui che un tempo era stato l'animatore del modernismo italiano si fosse incontrato con il fascismo in modo un po' casuale (come, del resto, estrinseco e casuale si è a lungo ritenuto che fosse stato il rapporto tra il fascismo e la società italiana); una sorta di impenetrabile silenzio ha avvolto a lungo questo momento della sua vita, un momento che tra l'altro non è stato per nulla breve, giacché quando Mussolini va al potere Murri ha cinquantadue anni, e quindi non è propriamente agli sgoccioli della sua esperienza umana. Eppure mi pare di poter dire che questo Murri è stato per lo più presentato dentro la cornice di una sorta di sventatezza senile che, più che altro, richiedeva tanta umana comprensione.
Credo invece che si debba recuperare il Murri - anche l'ultimo Murri - a una piena conoscenza storica, e si debba così recuperare anche il periodo precedente, in vista di una conoscenza più approfondita del Murri del fascismo. Insomma, lasciandosi alle spalle ogni spirito accusatorio (e al contempo rinunciando a ogni intento apologetico), la parabola del Murri rappresenta un frammento della storia italiana di straordinario interesse. Naturalmente occorre anche congiungere a questo atteggiamento verso Murri una lettura "realistica" della vicenda fascista. Occorre, in sostanza, abbandonare la vecchia concezione "parentetica" del fascismo. In quella prospettiva, infatti, appare evidente l'immagine di un Murri che diviene fascista per stanchezza o per mera convenienza esteriore, incastonandosi perfettamente nella raffigurazione di un'Italia "nicodemita". Ci stiamo invece avviando, come ormai da tempo sta accadendo, verso una considerazione del fascismo come di qualche cosa che è espressione di energie, di mutamenti e di tensioni molto profonde nella nostra società. Anche l'immagine del Murri fascista acquista un interesse conoscitivo non indifferente.
Murri diviene un intellettuale di grande rilievo nel panorama dell'Italia fascista, scrive su quotidiani molto importanti come il "Resto del Carlino", collabora a riviste teoriche di grande rilievo quali "Critica fascista" di Bottai.
Sono convinto che Murri trovi un elemento o una serie di elementi di sintonia tutt'altro che casuali con il panorama ideologico del fascismo. È qui che sta il nocciolo del paradosso, che non intendo risolvere oggi ma che addito come un problema che richiederà ulteriori riflessioni.
Indubbiamente l'antidemocrazia sta al centro dell'ideologia del fascismo, ed è di grande interesse affrontare e riflettere sulla vicenda di un personaggio che, a prima vista, appare così distante rispetto ai nuclei ideologici fondanti del fascismo. Vorrei intanto ricordare un dato abbastanza interessante, e cioè che Murri compare spesso negli scritti degli intellettuali di grande calibro del periodo fascista (mi riferisco a Gentile, Volpe e altri) come uno dei precursori del fascismo. Ritroviamo spesso quest'immagine di Murri, un'immagine intrisa di reverenza da parte dei padri spirituali del fascismo. Beninteso, questo è un motivo che può essere inserito in una dimensione puramente propagandistica, ma ci sono degli elementi di fondo che ci possono essere utili per capire il percorso di Murri e, al contempo, l'itinerario percorso dalla cultura e dall'intellighenzia dell'Italia liberale che approda al fascismo. Nel 1924, ad esempio, Augusto de Marsanich (qualcuno lo ricorderà in un altro contesto politico, a noi più vicino), intellettuale del gruppo di Bottai, pone nientemeno che Murri al fianco del grande Sorel, che fu davvero uno dei grandi ispiratori del fascismo, come colui che espresse uno dei più nobili e generosi tentativi di rivolta contro il materialismo borghese. Troviamo qui un tratto caratteri-stico del modo in cui Murri viene assunto nella galleria ideale dei precursori del fascismo. Questo elemento dell'antitesi al materialismo borghese sarà uno dei passaggi chiave che condurrà Murri a saldarsi in profondità con l'ideologia fascista.
Come Sorel, Murri sembrava aver innestato nel movimento sociale la forza dello spirito: certamente uno spiritualismo con una dimensione sociale e solidaristica, ma uno spiritualismo, anche, che si contrapponeva al materialismo borghese. Penso che ci siano alcuni punti salienti di quest'immagine di Murri precursore del fascismo che possono essere messi in risalto con profitto. Innanzitutto il fatto che in Murri si vedeva condensata una volontà di trasformazione radicale della società che si collocava però in una prospettiva diversa rispetto al materialismo socialista. Un secondo passaggio caratteristico è rappresentato da fatto che Murri veniva ricordato come una figura che, se per molti aspetti recuperava la socialità, purtuttavia si teneva ben distante dalle sponde del socialismo. L'antisocialismo di Murri veniva quindi a costituire anche un carattere saliente di questo recupero fascista del murrismo.
C'è poi, evidentissimo, un altro elemento, e cioè l'antiliberalismo, lo spirito antiborghese di Murri. Possiamo riferirci a uno dei più interessanti testi della cultura fascista che è stato ripubblicato recentemente dopo decenni di trascuratezza; intendo riferirmi a L'Italia in cammino di Gioacchino Volpe, uscito nel 1927. In una pagina di quest'opera, tra le figure di spicco di quest'Italia antiliberale, antiborghese, di quell'Italia che in qualche modo cercava di spezzare le catene poste in essere dallo stato liberale e da una borghesia imbelle e materialista, proprio qui si ricorda la figura di Murri. Non è certo un fatto secondario ritrovare in un testo di questa rilevanza, un'opera che tra l'altro ebbe una diffusione enorme in quegli anni, non è trascurabile ritrovare la figura di Murri presentata come colui che per certi aspetti era un po' socialista (sono queste le parole testuali di Volpe) e un po' antisocialista, nel senso di una sua opposizione al socialismo riformista, al socialismo democratico. Al medesimo tempo - ricorda ancora Volpe - Murri era un uomo che aveva espresso in modo estremamente efficace quel vago spirito antiborghese che appunto Volpe e l'intellettualità fascista volevano recuperare.
Anche Gentile, per fare un altro riferimento, paga per così dire il suo tributo a Murri, ricordando, a metà degli anni Venti, come il cattolicesimo fosse stato scosso, ridestato, ravvivato da Murri e dal murrismo.
Detto questo, credo che si possa concentrare la nostra attenzione su quelli che mi paiono i tre punti di passaggio fondamentali che esprimono questa sintonia tra Murri e il fascismo, una sintonia che, lo ripeto, mi parrebbe fuorviante considerare inesistente o comunque del tutto dettata da contingenze esterne.
Il primo motivo di fondo è costituito indubbiamente dalla guerra. La guerra è ciò che porta verso un ambito di confluenza molti elementi dispersi che nel periodo precedente si erano mossi anche in direzioni molto diverse. La guerra costituisce un elemento di trasformazione radicale che non ha paragoni non solo per la storia d'Italia, ma anche per la storia contemporanea in generale, un elemento di trasformazione profonda di sentimenti e di modi di pensare. Indubbiamente anche per Murri l'esperienza della guerra è determinante e rappresenta il primo anello di quella catena che porterà al fascismo. La guerra è, naturalmente, un evento barbarico e atroce, ma, nel medesimo tempo, è anche qualcosa d'altro. Vorrei qui ricordare il bellissimo libro di Paul Fussell tradotto alcuni anni fa dal Mulino, dove possiamo ritrovare alcuni elementi che ci permettono anche di capire quella tensione emotiva profonda che trasforma i modi di sentire sul piano individuale come sul piano collettivo.
Vorrei citare integralmente uno scritto di Murri; si tratta di annotazioni del 1927. L'esperienza della guerra si allontana, ma queste parole ci fanno capire come ciò che era accaduto tra il '14 e il '18 avesse costituito un passaggio fondamentale nel modificare la percezione della realtà anche di Murri. Dice Murri: "nella guerra ci sono momenti di slancio come se la nostra individualità si diradasse all'improvviso così da lasciarci apparire qualche cosa dell'intima sostanza umana e storica della quale siamo fatti, sicché noi, con tutti i nostri piccoli effimeri interessi, ci sentiamo a un tratto nulla, senza più peso, ma il nostro nulla è riscattato e portato in alto dall'istinto della passione, dalla volontà della stirpe del popolo e siamo travolti da un lampo di universalità e di eternità".
Alcune parole chiave: vorrei sottolineare l'indivualità che si dirada, l'intima sostanza umana che emerge nel momento della guerra e questo essere portati in alto, portati in una dimensione di universalità e di eternità. La guerra era stata questo, per Murri, e la guerra era stata questo per non piccola parte della società italiana, della società politica e intellettale, beninteso, non dei poveri contadini che ne erano stati solo la carne da cannone. C'è qui un prevalere dell'elemento collettivo che anima un altro passaggio caratteristico sia dell'ideologia fascista sia del pensiero di Murri. Questo prevalere dello spirito sulla materia, questo rifiutare la logica come si diceva allora dei "parecchisti" (Giolitti aveva detto che si sarebbe potuto guadagnare parecchio rimanendo neutrali). Giolitti era l'anima nera dell'Italia secondo Murri, così come lo era per il fascismo. Per Murri occorreva invece guardare alla realtà in termini ben lontani dal piccolo calcolo, dalle piccole necessità materiali. E poi la guerra, che dopo secoli di sottomissione e dopo quel Risorgimento che era stato frutto un po' del caso un po' della fortuna, quel Risorgimento e quel post-Risorgimento costellato da una serie infinita di sconfitte, da Custoza a Novara, da Lissa ad Adua, aveva finalmente rappresentato il risorgere dell'Italia vera.
Questo è certamente un terreno di incontro tra Murri e il fascismo che non si può trascurare. Rimanendo ancora su questo terreno, non dimentichiamo che la guerra era stata anche il momento nel quale la democrazia aveva subito delle attenuazioni; non era stato certo un momento in cui i valori democratici, anche la pratica democratica, avevano trovato particolare attuazione o grande realizzazione. La guerra era stata, in definitiva, un momento di emozione collettiva in cui si era esaltato lo spirito comunitario. L'individuo - l'individualismo come dice Murri - si era "diradato", e al suo posto era emersa l'esigenza collettiva della nazione.
Il secondo punto dell'incontro tra Murri e il fascismo è costituito dall'antisocialismo. Naturalmente bisogna intendersi contro quale socialismo si indirizzasse Murri. Infatti sia Murri sia il fascismo si battono contro il socialismo riformista gradualista che si era di fatto adattato alla realtà e si era mescolato, istituzionalmente e ideologicamente, allo stato liberale. Era quello, insomma, il socialismo di Turati, cioè il socialismo che si riteneva si fosse accontentato delle briciole lasciate cadere dalla borghesia e che aveva sostanzialmente annacquato le antiche istanze ideali diventando borghese. Anche il problema sociale doveva essere investito, come diceva Murri e come dicevano tanti altri intellettuali fascisti, da un idealismo etico. La cultura, la morale, le idee dovevano venire prima dell'economia pur dovendo saldarsi con le istanze sociali e le istanze collettive. C'era qui il rifiuto del socialismo in quanto materialismo, una concezione ideologica irrimediabilmente compromessa con una visione del mondo e della storia che si voleva sorpassare. Bisognerebbe forse domandarsi se nel gettare nella spazzatura questo socialismo, sia pure un socialismo determinista ed economicista, non ci fosse anche un venir meno della tensione a una trasformazione reale della società.
Anche il fascismo, indubbiamente, si muoveva su di un doppio binario: da un lato il rifiuto di un socialismo riformista di piccole trasformazioni materiali, dall'altro il desiderio di recuperare le idealità del socialismo. Del resto Mussolini era stato non solo socialista, ma era stato al contempo una delle figure più rilevanti del socialismo italiano. A questo proposito permettetemi un'annotazione molto netta: così come per lungo tempo si è dimenticato il Murri fascista ricordando solo il Murri del modernismo e del radicalismo, per converso per lungo tempo si è dimenticato il Mussolini socialista e si è solo voluto ricordare il Mussolini fascista.
Un ultimo punto. Abbiamo parlato della guerra, dell'antisocialismo: vediamo l'ultimo elemento del profondo contatto e della profonda sintonia tra l'ideologia fascista e il Murri del dopoguerra. Il tema a cui voglio accennare è la critica allo stato liberare, e qui bisogna dire che gli scritti di Murri sono davvero paradigmatici della cultura politica e del sistema culturale e politico del fascismo. Con il tema dell'antiliberalismo (e dell'antidemocrazia, bisogna aggiungere) del Murri di questo periodo, siamo proprio nel cuore della questione del rapporto tra Murri e il fascismo. Che cosa si criticava dello stato liberale e della democrazia? Si criticava l'assenza di respiro, di grandi orizzonti, l'incapacità o la non volontà del liberalismo prima e della democrazia poi a trasformare in profondità. La realtà per il liberalismo e la democrazia era fondamentalmente e sostanzialmente la realtà dell'individuo e l'individuo era in qualche modo ciò che riassumeva l'ideologia e le istituzioni liberaldemocratiche. Le società avevano invece bisogno (questo ci dicono gli ideologi del fascismo e tra questi anche l'ultimo Romolo Murri), le società avevano invece bisogno di idealità collettive. Bisognava modificare in profondità la realtà politica e sociale; attraverso il semplice individualismo non si sarebbe mai potuto giungere a ciò. Erano necessarie dunque grandi figure di uomini che impersonassero questa volontà collettiva che superava gli angusti confini dell'individuo. Il liberalismo e la democrazia esprimevano invece quello che veniva chiamato uno scetticismo diffuso, oppure - cito testualmente - il "praticismo". Ci voleva ben altro per trasformare la realtà; ci volevano grandi ideali, ci voleva il soffio dello spirito che era stato fortemente accentuato dalla prima guerra mondiale. È qui che si inseriva uno dei temi che abbiamo già toccato: il tema della libertà. È questo un nodo che certamente stava sulla strada del percorso intellettuale, morale e anche politico di questi uomini. Cosa fare della libertà? di questa libertà che di fatto era conculcata dal sistema politico che era nato e poi si era stabilizzato nei primi anni Venti? La critica alla libertà che ritroviamo spesso in Murri è la critica alla libertà liberale, e cioè la critica a un'idea astratta di libertà. Questa libertà, come dicevano gli ideologi del fascismo - e qui cito Murri - questa libertà più apparente che reale era in definitiva una "bella frode". Per trasformare la realtà e per dare una sostanza forte, autentica e diversa alla libertà ci voleva ordine e disciplina. Di qui, allora, veniva l'accettazione dello stato totalitario e il rifiuto dello stato liberale e democratico in quanto stato debole. È questo davvero uno dei punti nodali che ritroviamo nel Murri degli anni Venti e Trenta, ed è anche uno dei passaggi qualificanti della crisi delle culture politiche liberali e socialiste tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, e cioè la constatazione o l'affermazione che gli stati retti da istituzioni liberali e democratiche non erano in grado di governare la società. Le società avevano raggiunto un grande livello di complessità che le istituzioni dello stato liberale e della democrazia non erano più in grado di padroneggiare. Ne discendeva la necessità di irrobustire il centro, il cuore di questa società, cioè gli stati e i governi. È sull'onda di questi pensieri che si afferma la necessità della dittatura.
Negli anni Venti e Trenta c'è questo ricordo terrificante del parlamento, delle chiacchiere montecitoriali, come si diceva spesso, della corruzione, di quel riformismo che non riusciva a riformare, e di quel socialismo che al parlamentarismo si era adattato senza riuscire a portare nulla dei suoi elementi originali. In sostanza sullo sfondo del pensiero del Murri fascista c'era un'immagine dell'Italia caratterizzata da ciò che appariva come un progressivo e inarrestabile disfacimento. Si trattava di una disgregazione che altro non era che la traduzione concreta e attuale dell'ideologia liberaldemocratica.
Ricorderei, in conclusione, quelli che credo siano i due punti nodali che ci spiegano gli intellettuali e Murri nell'atto di dare il loro contributo essenziale alla vita del regime fascista. Su due piani, in particolare, questa intellettualità formatasi tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento non solo in Italia, ha finito per fornire le armi intellettuali e gli strumenti concettuali all'irro-bustimento del sistema totalitario. Da un lato la rivolta populista, antiborghese, dall'altro una rivolta spirituale antimaterialista che trova o pretende o crede o si illude di trovare nel fascismo la sua realizzazione: lungo queste due sponde ideali si muove quel fiume di pensieri, di istanze, di sentimenti che, dopo due decenni di vita non effimera, porteranno lo stato e la società alla catastrofe della seconda guerra mondiale.